L’incoscienza di Zeno, gaffeur impenitente
Casualmente (ma solo casualmente) sono tempestivo. Mi trovo qui tra i primi (forse il primo) a scrivere di un centenario importante: la prima pubblicazione de La coscienza di Zeno. Mancavo di volontà e determinazione, proprio come il personaggio uscito dalla penna di Italo Svevo. La lettura estiva è stata prodotta esclusivamente dal caso e andando a rivedere le date mi sono accorto che questo romanzo, sicuramente tra i più importanti del Novecento italiano, è uscito nei primi mesi del 1923. Insomma ci siamo: possiamo iniziare i festeggiamenti e le celebrazioni. Io faccio la mia modestissima parte con queste poche righe, frutto – come dicevo – di una lettura estiva.
Il caso e l’intempestività, invece, sono le leggi che regolano la vita del signor Zeno Cosini. Un personaggio talmente novecentesco da esserne, a mio modo di vedere, un paradigma emblematico.
Zeno non ha arte né parte. Da universitario è indeciso tra Chimica e Giurisprudenza. Le sue gaffes sono leggenda. E anche quando deve “accasarsi” sceglie un metodo che più goffo e imprevedibile non si può. Si innamora della prima figlia del signor Malventi. La bella e altera Ada. Che gli preferirà il “virtuoso” del violino Guido Speier. Per uscire dall’imbarazzo, Zeno prova a convincere prima l’altrettanto bella ma più giovane e vivace Alberta (che gli risponde picche perché, sue parole, “non ho che una mèta: diventare una scrittrice”). Quindi si adatta a chiedere la mano di Augusta, affetta da un non trascurabile strabismo.
E un matrimonio nato da una così stramba dichiarazione (con esilaranti effetti comici) finisce invero per essere un’unione armoniosa e a suo modo felice. Contro ogni volontà e contro ogni determinazione.
Questo personaggio – abbiamo detto – è novecentesco per la coscienza della propria incapacità di dominare il mondo esteriore e, soprattutto, quello interiore. E lo stesso Zeno si accorge che tutte le sue determinazioni sono tenute in nessun conto. Insomma, incisività zero, come dimostra la tenuta dei suoi rapporti con la futura sposa: “Fu un fidanzamento laborioso. Io ho il senso di averlo annullato varie volte e ricostituito con grande fatica e sono sorpreso che nessuno se ne sia accorto”.
Zeno ha la fragilità dell’uomo moderno, condita con una raffinata pur se poco appariscente ironia. Era l’epoca della Prima guerra mondiale e delle avanguardie. L’epoca in cui il progresso era costituito da un’incosciente forza di volontà. All’ottimismo (proditorio) della ragione Zeno oppone le sue gaffes. Ed è tutto il mondo che lo circonda a essere fuori sincrono. Non basta vivere nel mondo operoso dei commerci della buona e cosmopolita borghesia triestina. Il cognato, a esempio, muore per un banale errore di calcolo (facendo credere quindi a tutti – tranne che a Zeno – che si è trattato di un suicidio). E al suo funerale lo stesso Cosini non segue il feretro giusto ritrovandosi nel posto sbagliato al momento sbagliato. D’altronde come dice lo stesso narratore “la natura non fa calcoli ma esperienze”.
La stessa confessione finale (il romanzo nasce con l’espediente di un diario tenuto per scopi terapeutici) ci porta a frenare i nostri entusiasmi e a dubitare di tutto. Anche di quello che fino a quel punto si era creduto di capire. E lo stesso Zeno arriva a criticare le capacità analitiche dello psichiatra: “Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostro parola toscana noi mentiamo!” D’altronde la lingua scritta, cioè la lingua letteraria, arriva soltanto per approssimazione a tradurre i nostri pensieri e le nostre idee.
Nel caso di Hector Schmitz/Italo Svevo deve essere stata ancor più ardua la battaglia. Questo capolavoro della nostra letteratura, infatti, non vanta una lingua scorrevole e musicale. E non soltanto perché il pragmatismo dell’uomo d’affari borghese evita svolazzi e abbellimenti, ma anche perché la “materia” era allora nuova (se non nuovissima), tanto che il romanzo piacque al più grande innovatore letterario di quell’epoca: James Joyce.
Alla fine di tutto, di questo classico del Novecento rimane forte il sentimento di un’ironia sottile e vivace, di un umorismo placido ma inarrestabile. Che ci rende capaci di convivere con le nostre debolezze fino al punto di saperne ridere. Primo dovere di qualsiasi classico.