Se c’è un personaggio della nostra storia letteraria che può piacere sia agli americani che ai lettori di casa nostra quello è Gesualdo Motta. Il protagonista dell’omonimo romanzo di Giovanni Verga è un selfmade man. Da umile manovale diventa un grande speculatore e proprietario terriero. Riesce anche a fare un matrimonio prestigioso, togliendo dalle peste di una povertà sicuramente immeritata  (e una maternità scandalosa) Bianca Trao. E ai lettori italiani sarebbe piaciuto proprio per questo. Accetta una paternità “posticcia” per il bene della moglie e cresce la piccola Isabella con un amore incondizionato. E proprio la figlia finirà per portarlo nella tomba. La sua vita lussuosa al fianco di un marito aristocratico ma parassita corroderà il povero Gesualdo che ha fatto del lavoro e dell’accumulo della ricchezza la sua ragione di vita e la sua religione. Dando a Motta lo stesso destino del balzachiano Papà Goriot. Piacerà molto anche  ai tanti che riconoscono nel qualunquismo di Motta (che vuole evitare di prendere una posizione nei confronti dei moti socialisti e risorgimentali) il vero carattere nazionale.

Oggi Mastro don Gesualdo è a mio avviso una lettura indispensabile. Non soltanto perché Verga tratteggia con maestria e con impressionante preveggenza uno dei caratteri dominanti della società italiana del Ventesimo secolo (l’individualismo più retrivo) ma anche perché lo fa senza condannarlo a una luce negativa. A leggere la storia di mastro Motta con cuore aperto e in piena empatia si riconosce infatti all’ex manovale arricchito il desiderio di vivere una vita di sacrifici per garantire a sé stesso e alla sua famiglia benessere e prosperità. Ma, a differenza dei notabili e gli aristocratici decaduti che lo circondano, non vuole assicurarsi un futuro in maniera fraudolenta o attraverso la strumentalizzazione ideologica bensì con il semplice lavoro delle sue mani (mani da manovale, bianche di calcina e callose anche se spuntano sotto maniche di seta). I capitoli in cui Verga descrive l’ambiente aristocratico (la scena corale in teatro e il moto popolare che minaccia proprio i più abbienti) sono non soltanto efficaci per osservare il milieu in cui prende corpo la vicenda umana di Motta, ma svettano ancor oggi per stile letterario e narrativo.

Se potessi aver voce in capitolo, suggerirei a chi redige i programmi scolastici di dedicare un tempo ampio alla lettura di questo capolavoro. Magari suddividendolo per parti e capitoli come solitamente si fa con I promessi sposi, la cui lettura accompagna un intero anno scolastico, Si può parlare di classi sociali, di matrimoni di interessi, di gravidanze da nascondere e di matrimoni riparatori. Ma si può anche parlare di pandemia (le scene sul lockdown terribile e improvvisato ai tempi della diffusione del colera sono davvero profetiche), di cultura del lavoro (facendo ampi riferimenti al parassitismo che non è proprio soltanto delle classi abbienti e ogni riferimento al reddito di cittadinanza è tutt’altro che casuale)  e di giustizia.  Peccato, invece, che una riduzione cinematografica non potrebbe sfruttare l’interprete ideale per vestire i panni di Gesualdo: Alberto Sordi.

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