Non posso esssere un buon editor. Non riuscirei mai a guadagnarmi da vivere decidendo la sorte di manoscritti. Non si tratta soltanto di competenza, di bagaglio professionale e culturale. Si tratta di fiuto e sensibilità. Cose di cui sono affatto privo. Prova ne è che ho bocciato un capolavoro. Senza appello e dopo solo poche pagine.

Per fortuna ho l’abitudine di leggere fino in fondo i romanzi. Non mi sono mai fidato del consiglio, pur legittimo, di Daniel Pennac. Il lettore, sostiene il celebre scrittore francese, deve essere libero di non finire il romanzo che ha in mano. Perché non ha debiti nei confronti dell’autore e la sua libertà è ancor più sacra di quella di espressione sfoggiata dal romanziere.

Insomma, io avrei bocciato un capolavoro, se non avessi superato le prime pagine. E quel capolavoro è Lezioni di Ian McEwan (Einaudi, traduzione di Susanna Basso). Dopo l’entusiastica accoglienza di tutta la nostra stampa, non potevo non sentirmi sollecitato dall’aprirlo. Solo che le recensioni avevano finito per confezionare un bel (pre)giudizio. Sapevo molto del libro ancor primo di aprirlo. Sapevo che si trattava della storia di un mancato poeta/musicista che aveva trascorso gli ultimi settant’anni della nostra Storia recente con un occhio attento al privato e l’altro a ciò che succedeva intorno (dalla crisi dei missili di Cuba alla caduta del Muro, dall’ascesa di Tony Blair all’emergenza Covid). E soprattutto, svelavano i suoi esegeti, il nocciolo del racconto risiede in un nodo psicologico irrisolto scaturito dall’incontro tra un quattordicenne con l’ansia per l’apocalisse nucleare prossima ventura (siamo nel 1962) e la sua insegnante di pianoforte.

Dopo aver letto una ventina di pagine mi sembrava che il plot fosse già tutto scoperto, compreso la macchina narrativa che lo sottende. E già ero pronto a bofonchiare lapidarie bocciature per quello che si apprestava a essere un lungo romanzo senza importanza.

E invece, a mano a mano che andavo avanti, la storia si aggrovigliava, i personaggi si ispessivano e il racconto si animava. Il protagonista, Roland Baines, è tutt’altro che un individuo senza spessore, ma la sua qualità è tutta nella sua sensibilità e nella sua voglia di rimanere attaccato alla vita. Le sue velleità artistiche e le sue ambizioni sportive vengono frustrate dalla necessità di pagare bollette e crescere, da solo, un figlio di pochi mesi.

La grandezza di McEwan – non ha caso i critici hanno parlato del romanzo come della sua massima espressione dai tempi di Espiazione – risiede nel fatto di aver sfruttato la parabola esistenziale di Roland per toccare tutti i nodi nevralgici della creatività artistica.

Lui non riuscirà ad andare oltre all’arrangiamento originale di qualche standard di Thelonius Monk e i suoi diari di una vita risultano alla fine a essere banali annotazioni di fatti che, riletti a distanza di anni, perdono ogni forza evocativa. Eppure, Roland ha fatto un figlio con la maggiore romanziera tedesca del suo tempo. La sua scelta è sempre stata quella di scendere a compromessi con la vita a differenza di quanto fatto dalla moglie, Alissa Eberhardt, che con rigore ha scelto l’arte con tutto quello che di monastico e rigido comporta il “matrimonio” con una prepotente ambizione.

Un romanzo fiume del quale un plot così sintetizzato sminuisce la grandezza e la complessità. Con esso McEwan ci consegna una magistrale prova d’autore e ci lascia un messaggio ben chiaro: la complessità della vita non si può ridurre in un testo. E la sincerità dell’autore/narratore non basta per sedurre i lettori. Servono alchimie del tutto imprevedibili. E spesso, quando queste mancano, non vuol dire che la vita sia passata invano. D’altronde anche chi finisce per ottenere quel grande successo dovuto a chi ha saputo trasformare il suo immaginario in capolavori può invidiare la vivacità e la ricchezza emotiva della gente comune. Perché, appunto, tutte le vite anche quelle di un pianista di pianobar hanno una ricchezza interiore che non è possibile ridurre in una sintesi letteraria. Sui modelli e ambizioni dello stesso Roland McEwan, poi, fornisce tracce semplici ma dettagliate: sono la proustiana Recherche e L’uomo senza qualità di Robert Musil. I due libri che, una volta in pensione, il vecchio Roland ha l’ambizione di rileggere (in lingua originale, il secondo).  In essi non soltanto ci sono le chiavi del Novecento, ma anche le premesse e gli strumenti necessari per chi abbia l’ambizione di raccontare i nostri giorni. O, per i lettori più accorti, gli strumenti per saper decrittare i flussi esistenziali. Basta superare le prime pagine e andare avanti con fiducia.

 

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