Gore Vidal tra demagoghi e demiurghi
Sono due le cose che non capisco della politica americana. La prima è il sistema elettorale che porta all’elezione del presidente. La seconda è la scelta dei due candidati che si sfideranno a novembre per la conquista della Casa Bianca. Possibile, mi chiedo, che non si siano trovati due antagonisti un tantino più giovani?
Per la seconda domanda non ho trovato risposta (davvero non è possibile trovare un democratico più lucido di Biden e un repubblicano più limpido di Trump?). Per la prima mi sono fatto un’idea leggendo un celebre romanzo di Gore Vidal intitolato L’età dell’oro (edito in Italia da Fai nel 2017 con traduzione di Luca Scarlini). Il libro è l’ultimo atto di una “saga” in nove volumi nella quale il celebre romanziere e drammaturgo statunitense ha voluto ripercorrere la storia dell’ex colonia britannica dal momento della sua indipendenza fino ai giorni nostri.
Il volume in questione è l’ultimo atto di questa saga e i suoi protagonisti si affacciano al ventunesimo secolo da una terrazza più unica che rara: il giardino della Rondinaia di Ravello appartenuta proprio all’autore americano. Il racconto però inizia ancora negli anni Trenta e documenta tutta la parabola umana e politica di FDR, ovvero Franklin Delano Roosvelt e il suo caparbio attaccamento al potere.
Tanti, troppi forse, i protagonisti di questo racconto corale, per descriverli o per nominarli: senatori, segretari di Stato, presidenti, aspiranti presidenti, giornalisti, tycoon, registi cinematografici e attori di cinema e teatro. Con l’apparizione saltuaria di eroi di guerra e di scrittori in cerca di fama. Un racconto corale e una polifonia di voci che atomizzano il pensiero dell’autore sull’impero americano e sulla sua Età dell’oro, iniziata nel 1946 a Postsdam e terminata con la guerra di Corea.
Tutti i meccanismi della conquista del potere politico vengono raccontati da un continuo ed elegante gossip. E, di retroscena in retroscena, si mettono in luce le trame per la conquista di cariche non elettive come anche le parabole dei media, dal tramonto della radio al trionfo del piccolo schermo.
La scrittura di Vidal, scabra ma tagliente, mi ricorda lo stile di Arbasino, forse il più affine al grande scrittore americano. Avevano molto in comune: dall’amore per l’arte alla profonda conoscenza del diritto internazionale e della real politik. Solo armandosi dei più raffinati strumenti di analisi culturale, era la convinzione dell’autore di Fratelli d’Italia, si può davvero capire come va il mondo, al di là dei facili richiami delle mode passeggere e degli echi di una cultura popolare troppo condizionata dalle regole e dalle necessità del mercato.
Ne L’età dell’oro c’è anche spazio per una rivelazione, che prende corpo a poco a poco nelle pagine dedicate all’entrata in guerra di Roosvelt e all’impegno di Truman nel proseguire il lavoro del suo predecessore. Si parla di regole di ingaggio ma anche di come i giapponesi sono cascati nella trappola americana che ha volutamente sacrificato (nella vulgata offerta da Gore Vidal) 2400 tra militari e civili a Pearl Harbor per poter entrare in guerra senza tradire le promesse di non intervento fatte dal presidente al suo popolo.
Un romanzo corale, dicevamo, perché tanti sono i protagonisti di questo lungo racconto che copre sessant’anni di vita americana. E non è importante stabilire ora chi ha detto: “C’è così tanto da sapere, e così tanti cattivi professori” oppure “Gli Stati Uniti? Una regione selvatica destinata a sognare per sempre di essere un’Atene risorta, quando invece si tratta soltanto di una Roma ricreata con ostinazione e grossolanità”. Importante è arrivare fino in fondo a un romanzo che si chiude con un fosco presagio: “Ma l’età dell’oro, se ce n’è mai stata una, nel 1954 era già finita, no?” “Sì, il che significa che quello che pensavamo fosse un luminoso inizio era in realtà l’ultima fiammata nella notte”. Da allora avere la responsabilità della pace mondiale è stato il peggior incubo degli americani, dai bostoniani illuminati ai redneck del Midwest. Che ancor oggi, che il teatro internazionale offre guerre di ogni tipo, vorrebbero tornare a essere un fortino isolato, difeso da due oceani e da una politica di miope egoismo.