Ultimamente, quando entro in libreria, mi assale la sensazione che l’Italia sia diventata un popolo di giallisti. E, oltretutto, di bravi giallisti. Potrei sorvolare – non è questo il blog adatto – sulla mia recente lettura del romanzo di Antonio Manzini Il passato è un morto senza cadavere (Sellerio) se non fosse che il piacere che no ho ricavato mi ha spinto a riprendere in mano il “più grande romanzo italiano del Novecento” (definizione proposta da molti autorevoli critici) che incidentalmente ha anche la veste di un giallo. Sto parlando ovviamente di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Sgombro subito il campo da un potenziale equivoco. Qui non si vuole affatto mettere a confronto i due testi. Il primo è un perfetto esempio di (ottimo) giallo contemporaneo. Aderente a un canone, e alla “poetica” del suo autore. Parte da un delitto e racconta l’indagine che il protagonista affronta per scoprire movente e autore. Se vogliamo, si può aggiungere che Manzini ha anche una mal dissimulata ambizione di offrire uno spaccato aderente alla realtà (popolata, tra l’altro, da numerosi campioni dei più diversi tipi umani). Il secondo è qualcosa di ovviamente diverso. Sì, ma cos’è? Il dirigente della Squadra mobile Francesco Ingravallo (detto don Ciccio) è chiamato a indagare prima sulla sparizione delle gioie della vedova Menegazzi e poi sull’omicidio della sua dirimpettaia Liliana Balducci, avvenuto il  giorno dopo. Teatro dei due reati è il civico 219 di via Merulana. Frequentato dallo stesso Ingravallo, amico della famiglia Balducci (e segretamente innamorato della vittima).

Gadda sceglie il giallo perché sono l’omicidio, lo scarto dalla regola, il furto, l’inosservanza delle leggi e della morale, i veri nemici del regime che in quegli anni (siamo nel marzo del 1927) cerca di plasmare con la propria ideologia la città di Roma e l’intero Paese. Un delitto, i suoi protagonisti e le sue ragioni rappresentano ciò che di meglio c’è per raccontare e descrivere l’altra metà del “cielo italico”. Proprio ciò che – insomma – si tenta di nascondere dietro la retorica di regime che esonda dalle pagine dei verbali e dei documenti ufficiali per infradiciare le pagine dei giornali e i testi dei cinegiornali. “Erano passati i tempi belli – racconta il nostalgico narratore -… che pe un pizzico ar mandolino d’una serva a piazza Vittorio, c’era un brodo longo de mezza paggina. La moralizzazione dell’Urbe e de tutt’Italia insieme, er contetto d’una maggiore austerità civile, si apriva allora la strada. Se po dì, anzi, che procedeva a gran passi. Delitti e storie sporche ereno scappati via pe sempre da la terra d’Ausonia, come un brutto sogno che se la squaja. Furti, cortellate, puttanate, ruffianate, rapina, cocaina, vetriolo, veleno de tossico d’arsenico per acchiappà li sorci, aborti manu armata, glorie de lenoni e de bari, giovenotti che se fanno pagà er vermutte da una donna, che ve pare? la divina terra d’Ausonia manco s’aricordava più che robba fusse”.

Gadda non si accontenta di affrontare il genere giallo. Vuole di più. Molto di più. Con la sua lingua infarcita di dialetti, di modi di dire, di espressioni gergali e di linguaggio tecnico, vuole restituire la vita che la retorica ufficiale voleva uniformare inibendo la spontaneità. Se questo viene ancora oggi considerato un modello letterario ineguagliato è per il fatto che Gadda ci offre un espressionismo letterario che bene può reggere il confronto con le più ardite prove di James Joyce. La lingua del Pasticciaccio ricrea quel magma incontrollabile che chiamiamo vita offrendoci spaccati che vanno fino al più profondo dettaglio. Alcune immagini sono restituite con una vividezza impressionante. E raccontano particolari che certo i giallisti snobbano. Ma lo fa perché quei dettagli servono a indagare sull’animo umano non sull’assassino. Per quello bastano i verbali della questura, sembra dire l’autore.

Anche il metodo investigativo di Ingravallo (e presumibilmente dell’epoca in generale) era di raccogliere testimonianze (e delazioni). Le quali arrivavano con una enorme messe di dettagli che dicevano più della psicologia, del carattere e della condizione del testimone che del “presunto colpevole”. Insomma il più grande romanzo del Novecento è un giallo, che però si rivela essere (se è possibile l’espressione) un “anti-giallo”.  E dopo un interrogatorio in narratore commenta: “Don Ciccio sudò freddo. Tutta la storia, teoricamente , gli puzzava di favola. Ma la voce del giovane, quegli accenti, quel gesto, erano la voce della verità. Il mondo delle cosidette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce”.  E infatti il libro “appare” incompiuto e la storia si chiude sulle tante voci dei protagonisti minori, ognuno disposto a urlare la propria innocenza e la colpevolezza altrui (e del destino).

Alla fine cosa ci resta del plot? Poco o niente. Un’inchiesta mai terminata. Tante inattendibili testimonianze e una lunga teoria di maschere, di voci, e di immagini che risultano più vivide e più spietate di qualsiasi esattezza fotografica. Insomma il narratore ci si è messo di impegno a confezionare un buon romanzo (con scene edipiche e freudiane di sapida intelligenza)  ma la boule che dovrebbe contenere la fluida materia di un giallo dove tout se tient è piena di buchi…. la vita scappa via e la penna di Gadda prende strade impreviste e imprevedibili. E le digressioni divengono il vero nucleo portante della narrazione. Ecco alla fine cosa divide i racconti di Rocco Schiavone (che comunque condivide molti tratti somatici, linguistici e caratteriali con Ciccio Ingravallo) e il Pasticciaccio: uno scolapasta.

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