“Marianne Dashwood era nata per un singolare destino. Era nata per scoprire la falsità delle sue opinioni e per sconfiggere con la sua condotta le sue massime più care”. Come incipit non sarebbe male. Starebbe benissimo come apertura di un romanzo dickensiano.  Dove la considerazione da il la a un romanzo a tema edificante. E invece i lettori più attenti avranno certo capito che Marianne è una delle protagoniste di Ragione e sentimento di Jane Austen. Curioso notare, però, che la citazione si ritrova non a inizio racconto bensì al suo compimento. E questo la dice lunga sulla fabula austeniana, più attenta a lasciar correre gli eventi per trarne soltanto alla fine una morale. Conservando, sia ben chiaro, il pudore necessario per chiudere l’happy ending amoroso un attimo prima della celebrazione del matrimonio perché – come ripeteva sempre la stessa Austen – oltre “quella porta proibita è meglio non indagare”.

Dopo un’estata trascorsa a leggere novità, avevo bisogno di un ritorno alla comfort zone dei classici e mi sono affidato a miss Austen, affrontando per l’ennesima volta le peripezie e gli struggimenti amorosi di Marianne e di sua sorella Elinor.

La due hanno da poco perso il padre e scoperto che il testamento è fin troppo patriarcale lasciando a loro e alla loro madre le briciole di un banchetto a cui è invitato soltanto il fratellastro. Da lì l’esigenza per la loro madre di “sistemarle”, mentre loro cercano di mostrarsi all’altezza della buona società di provincia. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Il racconto procede con il disvelamento del vero carattere dei personaggi che le etichette e il buongusto mondano tentano invano di nascondere. Ribaltamenti, questi, mitigati da agnizioni e buone novelle che miss Austen sa disseminare con perizia (ma senza strafare in generosità) lungo tutto il racconto (e soprattutto nella sua parte finale).

Chiudendo il libro ho avuto la netta sensazione di aver assistito a un esperimento di laboratorio, con la Austen nei panni della scienziata che sistema le cavie in un macchinoso labirinto pieno di tranelli e trappole. Per poi osservarle e riportare tutto sulla carta, da scrupolosa etologa.

Potevo scegliere di leggere questo romanzo nella chiave dell’emancipazione femminile, ovvero nella chiave del riscatto delle sorelle Dashwood. Avrei potuto anche leggerlo come romanzo sociale dove il matrimonio è ancora un passo necessario per formare le rendite e uno degli strumenti più efficaci della promozione economica. Avrei potuto leggerlo come variazione sul tema di Emma Bovary, sul delicato rapporto tra immaginazione e realtà nella mente di una giovane donna. E invece ho scelto di vederlo come descrizione di uno spaccato sociale animato da una “danza goldoniana” (rubo la citazione a una preziosa prefazione al romanzo firmata da Dacia Maraini), nel quale i personaggi si muovono come piccole cavie per regalare alla etologa Austen materiale sufficiente per le sue considerazioni.

E in fatto di osservazione e giudizio, l’autrice/voce narrante si serve del corpo e della maschera di Elinor per indicarci il metodo da seguire. E ce lo indica in negativo: “Elinor non aveva bisogno di questo per riconoscere l’ingiustizia a cui sua sorella era spesso trascinata, nel giudicare gli altri, dall’irritabile delicatezza della propria indole e dalla eccessiva importanza data ai pregi di una viva sensibilità e alle grazie di un comportamento raffinato”.

Se queste sono le premesse e se considerate che la penna della Austen sa raggiungere vette di raffinatissimo sarcasmo e di incisiva ironia, potete immaginare quale spettacolo si apre davanti al lettore che vuole cimentarsi con questo romanzo (pubblicato nel 1811 quando l’autrice aveva 36 anni ma presumibilmente scritto quando ne aveva meno di venti!).

Qui di seguito alcune perle che propongo come sapidi antipasti di un fornitissimo banchetto.

Ecco due signore della buona società che si guardano in cagnesco ma che proprio in questo modo si legittimano vicendevolmente: “Lady Middleton fu ugualmente soddisfatta della signora Dashwood. C’era una specie di freddo egoismo nell’una e nell’altra, che le attirava scambievolmente, sicché simpatizzarono a vicenda in un insipido convenzionalismo di comportamento e in una generale mancanza d’intelligenza”. Poi c’è il ritratto di una gran dama la cui personalità è inversamente proporzionale al suo blasone: “La signora Ferrars aveva la carnagione giallastra e lineamenti minuti, senza espressione; ma per fortuna una contrazione della fronte salvava il suo volto dal discredito dell’insipidità, segnandola coi forti caratteri dell’orgoglio e della malevolenza. Era una donna di poche parole perché, a differenza della gente in generale, le proporzionava al numero delle sue idee”.  E chiudo con la descrizione della ricchezza. In pochissime parole la Austen sa fare piena luce su un mondo: “Il pranzo fu grandioso, i domestici numerosi, e tutto parlava dell’inclinazione della padrona di casa allo sfarzo e delle possibilità del padrone di contentarla”.  Nemmeno Arbasino avrebbe potuto essere più sintetico e più incisivo.

Mi fermo qui ma di perle da segnalare me ne ero segnate molte altre. Sta al lettore adesso continuare il gioco se, come me, vuole vedere in Jane Austen una scrupolosissima etologa e in Ragione e sentimento un perfetto esperimento di laboratorio.

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