Il fil rouge tra Xi e Putin
Pubblichiamo un’ampia anticipazione di un libro in corso di pubblicazione sulla guerra russo-ucraina, scritto da Fabrizio Amadori, esperto di comunicazione e di questioni geopolitiche.
«Mentre la Russia continuava ad attaccare l’Ucraina, dall’altra parte del mondo la situazione si infiammava. Xi Jinping aveva ribadito al XX Congresso che la Cina avrebbe fatto tutto il necessario per riprendersi Taiwan. Sembrava del tutto indifferente al punto di vista dell’Occidente. Per lui, il modello liberaldemocratico non rappresentava affatto il punto più alto della cultura politica, anzi. Tanto è vero che per il giornalista francese Billeter, citato da Sergio Romano sul «Corriere della Sera», esisteva un documento numero 9 risalente al 2012, e dettato forse dallo stesso Xi Jinping, dove si diceva che ogni membro del partito ha il dovere di combattere ovunque e sempre i valori occidentali (leggi: liberaldemocrazia). Del resto, il presidente cinese riteneva che, proprio grazie all’intervento poliziesco del Partito comunista, Hong Kong era tornata vivibile. C’era stato un esodo di professionisti ed imprenditori dall’ex colonia britannica, ma minore di quanto ci si sarebbe aspettato. In questo senso, Xi Jinping non aveva nulla di particolare da rimproverarsi, senonché era l’artefice dell’impoverimento della ricca città. Secondo alcuni, si trattava di un obiettivo voluto, nel senso che il presidente cinese intendeva sacrificare Hong Kong a vantaggio di Shanghai, città tradizionalmente ricca e più facile da controllare dal parte del regime. Infatti, se il popolo dell’ex colonia britannica avesse continuato a rappresentare una spina nel fianco del potere assoluto del Partito a causa delle sue idee liberali, lo sarebbe stato con maggiore efficacia da una posizione di superiorità economica. In questo senso, Xi Jinping faceva bene a indebolire Hong Kong, che probabilmente rappresentava ai suoi occhi non solo un pericoloso esempio di democrazia reale per il resto della Cina, ma anche un modello altrettanto minaccioso di mercato libero che non intendeva vedere espandersi in tutto il suo gigantesco paese. Secondo molti, infatti, il presidente cinese non credeva nel mercato all’occidentale, che probabilmente vedeva come premessa per uno sviluppo del paese in senso democratico, esattamente come Putin. A poco a poco si era fatto paladino di una politica economica dirigista i cui effetti avrebbero potuto risultare deleteri dopo dieci anni di sviluppo. Era un discorso, questo, che si poteva fare benissimo anche per la Russia, al punto che gli Usa non ritenevano più la Federazione un’economia capitalistica compiuta. Di conseguenza, presto sarebbe stata oggetto di dazi anti dumping. A dirla tutta, Pechino aveva già registrato una crescita modesta nell’anno in corso, e questo nonostante Xi Jinping fosse ancora convinto che entro il 2035 la Cina sarebbe diventato un paese a reddito medio-alto, ed entro il 2049 una “potenza guida in tutti gli aspetti”. Come si è già segnalato, l’America di Biden era cresciuta più della Cina, cosa che non accadeva dai lontanissimi anni Settanta. Probabilmente, Xi Jinping si era fatto condizionare dall’efficacia dell’intervento dello Stato cinese in tempo di crisi, prima finanziaria e poi legata al Covid.
Evidentemente, però, era pericoloso protrarre un simile intervento pubblico quando la crisi era, almeno in parte, superata. Secondo alcuni, era proprio perché Xi Jinping non stava più ottenendo buoni risultati in campo economico che cercava di spostare l’attenzione su Taiwan, contro cui applicare la politica della tensione. Non a caso, il presidente cinese aveva preso a parlare con sempre maggiore insistenza di grandi investimenti nelle forze armate. Evidentemente, lo scopo era utilizzare la crisi di Taiwan per sdoganare la strategia del riarmo che, in realtà, non sarebbe servita solo per riconquistare la piccola isola, ma per inaugurare una rinnovata politica di potenza. Tale strategia avrebbe giocato a favore dello sviluppo del nazionalismo mai sopito dei cinesi, e cioè di una potente leva da usare per il mantenimento del potere da parte di Xi Jinping. Infatti, rieletto per un quinquennio, il presidente cinese poteva covare ambizioni per il periodo successivo a quel terzo, eclatante mandato. Eclatante perché contraddiceva in pieno la vecchia dottrina del fondatore della Cina moderna, Deng. Il quale, pur responsabile dell’eccidio degli studenti a Tiennamen, era favorevole al potere collegiale per evitare gli errori del maoismo, oltreché all’apertura al mercato del sistema economico nazionale. Maestro in metodi mafiosi, Xi Jinping era stato abilissimo a sbarazzarsi dei suoi diretti avversari, estromettendoli dal Comitato centrale pur essendo membri del Politburo permanente. In quei giorni, fu memorabile il modo in cui l’ex presidente cinese Hu Jintao fu accompagnato fuori dalla sala dei congressi sotto gli occhi apparentemente indifferenti di Xi Jinping. Per alcuni, il presidente cinese in carica aveva voluto coronare la sua rielezione con un segno di disprezzo per l’ala più moderata del partito, di cui Hu Jintao era un celebre rappresentante, per quanto in declino. Per altri, aveva semplicemente voluto impedire al vecchio presidente di criticare le nuove nomine per il Comitato centrale, dato che erano stati esclusi tutti i suoi candidati. Ma era finito il tempo in cui gli ex presidenti erano capaci di influenzare la politica cinese da dietro le quinte. Secondo alcuni, però, era finito soprattutto il tempo in cui la carriera dei funzionari dipendeva più dalle capacità che dal senso di obbedienza per il presidente.
In questo senso, Putin stava facendo da maestro al collega cinese. Dopo averlo riportato in vita per colmare il vuoto lasciato dalla morte del comunismo, il presidente russo stava ora usando il nazionalismo sino alle sue conseguenze estreme, sino a chiedere, cioè, a dei ventenni di sacrificarsi per la patria. Ovviamente, Putin aveva dovuto prima inventarsi la narrazione di una Russia in pericolo a causa dell’Occidente.
Secondo alcuni commentatori, Xi Jinping poteva usare una narrazione simile, ossia affermare che gli Usa intendevano intromettersi negli affari interni di Pechino impedendo l’unificazione con Taipei. Da qui a convincere i cinesi che era necessaria un’azione di forza il passo era breve. Da parte sua, il Pentagono era dell’idea che la Cina fosse in grado di invadere Taiwan, e che Xi Jinping sognava una conquista a stretto giro per rafforzare il proprio potere. Ma era proprio così? Infatti, anche gli americani – bisogna sottolinearlo – non possedevano la sfera di cristallo. Ad esempio, avevano pensato che Mosca avrebbe occupato facilmente l’Ucraina, per poi essere smentiti dai fatti sul campo di battaglia. Certo, il paese guidato da Zelensky era molto più grande e popoloso di Taiwan, ma era anche vero che era assai meno ricco e meno organizzato, e privo della difesa costituita dal mare. Di conseguenza, nessuno avrebbe potuto affermare con certezza che un attacco cinese a Taiwan sarebbe stato coronato da un facile successo.
Per quanto riguardava lo scenario europeo, in quel periodo gli ucraini avevano ripreso saldamente l’iniziativa e si erano spinti ad attaccare in modo sistematico la città russa di Belgorod, che stava diventando sempre più un simbolo del disastro della cosiddetta “operazione militare speciale”. Anche perché si trattava di una città di confine tra due nazioni sorelle sino al giorno prima. Non a livello di governi, ma di persone comuni che ora, spesso, si trovavano a combattere le une contro le altre, anche se facevano parte della stessa famiglia.
Messa alle strette, Mosca stava continuando a comprare grandi quantità di droni kamikaze e missili iraniani Fateh-110 e Zolfaghar, col risultato di spingere Israele, nemica giurata di Teheran, a intervenire a favore di Kiev nonostante il recente avvicinamento tra Mosca e Gerusalemme voluto da Putin. Del resto, Israele aveva venduto armi alla Georgia durante il conflitto con la Russia, ma questo non aveva spinto Teheran a intervenire a fianco di Mosca. Da parte sua, Gerusalemme avrebbe ricucito con Mosca fornendo armi anche alla Russia dopo lo scontro con Tbilisi.
A proposito di armi, in quei giorni la Germania aveva sostenuto uno scudo missilistico a protezione dell’Europa che però non piaceva alla Francia, dato che non usava tecnologia tutta europea (e francese in primis). Lungi dal cementare il loro patto di ferro, Parigi e Berlino si trovavano spesso sui lati opposti della barricata quando si trattava di progetti comuni in cui la Francia intendeva perseguire l’autonomia strategica dagli Usa. Non a caso, un vertice tra Scholz e Macron che si doveva tenere in quel periodo era in bilico. E, a proposito di gravi difficoltà, la britannica Liz Truss era in procinto di dimettersi, con la conseguenza che sui giornali del Regno Unito si era iniziato a parlare di “italianizzazione” della politica britannica. Mentre un governo europeo era in procinto di cadere, un altro stava nascendo, quello della prima donna premier della Penisola, Giorgia Meloni. Proveniente dall’estrema destra parlamentare, sarebbe stata messa subito sotto i riflettori internazionali, anche perché già da giorni molta stampa in tutto il mondo vedeva nella sua presa di potere il ritorno del Fascismo nel paese che non solo lo aveva fondato, ma che ora faceva parte del G7 (ed insomma, non si trattava della modesta Ungheria di Orbán).
Ovviamente, gli scontri tra alleati venivano fatti sempre nella consapevolezza che i veri nemici erano altri, ma intanto un progetto comune di difesa del Vecchio continente veniva bloccato per interessi nazionali. Del resto, sia Parigi che Berlino intendevano evitare di esasperare i toni con Mosca al contrario di Londra, almeno in parte sostenuta da Washington. In quel momento, però, Francia e Germania non potevano ottenere molto da Putin dato che le sue truppe erano in ritirata. Infatti, il capo del Cremlino intendeva contrattare con Zelensky da una posizione di forza, e cioè esattamente quanto non era ancora riuscito a raggiungere. Anche per tale motivo, il presidente russo non riteneva utile un incontro con Biden. Dall’altra parte, nessuno in Occidente desiderava permettergli di cantare vittoria e spingere di conseguenza Paesi come la Cina e l’Iran a seguire la politica aggressiva della Russia. Secondo alcuni analisti, Putin avrebbe continuato a lungo la guerra perché era il primo a sapere di non poter usare le armi atomiche in Ucraina per non scatenare la reazione della Nato. Viceversa, avrebbe potuto rispondere nell’unico modo efficace, ossia usando le sue forze nucleari, il che significava, però, non solo scatenare l’Armageddon ma rischiare, come si è detto, di suscitare il no fermo dei suoi generali. Ed insomma, Putin rischiava di innescare uno scontro tra forze interne prima ancora che con la Nato, se non addirittura l’arresto immediato. Infatti, il capo del Cremlino non contava molti amici tra l’esercito, e il rischio di uno scontro tra settori delle forze armate, o, più probabilmente, tra i servizi segreti e i generali, suggeriva un risultato alla romena. Quello cioè che il dittatore di Bucarest Ceausescu, sostenuto inizialmente dalla famigerata Securitate, subì alla fine sulla propria pelle, una volta abbandonato dall’esercito. Ovviamente, Putin non avrebbe voluto seguire il suo destino, culminato con la barbara fucilazione di Ceausescu insieme con la moglie Elena. C’era addirittura chi sosteneva che Putin aveva pensato ad una invasione rapida dell’Ucraina per inaugurare nel migliore dei modi il processo di transizione per la sua successione. Le cose stavano andando diversamente, ma la successione era ancora sul tavolo».
Wall & Street