La ricetta della felicità secondo Zweig
“Quando il vecchio Burgtheater, nel quale avevano echeggiato per la prima volta le note delle Nozze di Figaro, venne demolito, tutta la società viennese si radunò con solenne commozione tra quelle mura come a un funerale, e appena calato il sipario tutti si lanciarono sulla scena per portarsi a casa quale reliquia almeno una scheggia delle tavole su cui avevano agito i diletti artisti, così che innumerevoli case borghesi ancor dopo decenni serbavano quei frammenti di legno in una preziosa cassetta, come nelle chiese, si conservano le schegge del Crocifisso”.
A raccontare la fine del vecchio Burgtheater è Stefan Zweig in quello che forse è possibile considerare il suo libro migliore: Il mondo di ieri (Mondadori). Zweig sta parlando del celebre teatro di Vienna. E soprattutto sta raccontando il tramonto di un’epoca. Un’epoca felice, diremmo noi leggendo queste poche righe. Perché era un tempo (e un luogo) dove l’intera comunità partecipava con entusiasmo della vita culturale, rimanendone profondamente influenzata. D’altronde l’epoca che prende vita nella pagine di questo libro non è un’epoca qualsiasi. Bensì si tratta di quello che viene considerato l’ultimo scorcio dell’era moderna in cui è stato possibile guardare al futuro con sereno (ma ben temperato) ottimismo. Appunto il “mondo di ieri”, quello in buona sostanza cancellato da due guerre mondiali e da una crisi economica devastante.
Zweig, scrittore e drammaturgo austriaco attivo appunto nella prima metà del Novecento, è riuscito con una sapienza davvero ineguagliabile a raccontare e descrivere non semplicemente un’epoca ma il passaggio da un’epoca all’altra. Gli ingredienti di questo capolavoro sono semplici (anche se il mix è più unico che raro). C’è un autore che vanta una cultura enciclopedica, nutrita anche di una vasta conoscenza dei luoghi e degli uomini, visto che Zweig ha girato in lungo e in largo l’Europa prima di riparare in Sudamerica allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale; c’è un’ardente passione per la libertà; c’è uno spirito di osservazione molto acuto; e soprattutto c’è un’autonomia di giudizio davvero lodevole.
Alle soglie dei sessant’anni, quando ormai lontano da casa viene raggiunto da notizie drammatiche e sconfortanti provenienti dall’Europa in fiamme, Zweig prova a ricreare il suo”vecchio mondo” a uso e consumo di chi verrà. Un modo insomma per rendere un servizio ai posteri. E per sperimentare un giusto rapporto con il tempo, celebrando lo “ieri” per stigmatizzare i demoni del “presente”. D’altronde l’autore della Novella degli scacchi è stato (come tutti gli umanisti che si rispettino) un attento lettore di Shakespeare. E proprio citando il Bardo amava ripetere: “Andiamo incontro al tempo come esso ci cerca”. Non si rifugiava insomma nella cultura per evitare di “contaminarsi” con una modernità alienante e disumana. Piuttosto sfruttava gli strumenti che la cultura gli metteva a disposizione per capire in anticipo fenomeni che ai più risultavano soltanto mode passeggere e fenomeni di costume temporanei.
Una lettura del genere oggi potrebbe servire soprattutto a coloro che non fanno che lamentarsi di quanto velocemente mutino i tempi. Di quanto la tecnologia e i riti collettivi sembrino allontanarci da un ideale umanistico, ormai coperto dalla polvere del tempo e della dimenticanza. Soltanto vent’anni fa, solo per fare un esempio, si usavano ancora i citofoni e si viveva serenamente senza telefonini. E oggi invece non sappiamo vivere senza l’ultima generazione di smartphone. Sembra che il disagio sia la cifra di chi ha vaga sapienza del sapore della vita d’antan. Il disagio di non riuscire a non adeguarsi ai ritmi e alle trappole della modernità. Zweig, dal canto suo, avrebbe potuto rimpiangere molte cose che le due guerre mondiali gli avevano brutalmente sottratto, eppure non si perdeva d’animo. Mantenendo sempre il controllo di sé e una visione lucida del presente. Tanto lucido da anticipare in tempi non sospetti alcuni nodi della civiltà dell’immagine che ha potuto soltanto prefigurare, non certo osservare. Ecco cosa pensa – ad esempio – dell’immagine che di sé ha uno scrittore e l’atteggiamento che, invero, dovrebbe avere. “Fin da ragazzo non riuscivo a comprendere gli scrittori e gli artisti della vecchia generazione che volevano farsi distinguere già per l’aspetto, mediante giacche di velluto e chiome spioventi o ciuffi vistosi sulla fronte, come per esempio i miei venerati amici Arthur Schnitzler e Hermann Bahr, o con baffi bizzarri o abiti inconsueti. Sono convinto che, diventando conosciuto l’aspetto fisico di un uomo, questi è inconsciamente indotto, secondo la parola di Werfel, a vivere quale uomo specchio del proprio io, ad assumere cioè un certo stile in ogni gesto, perdendo così di solito, con la trasformazione del contegno esteriore, un poco della cordialità, della libertà e della serenità della propria indole. Se potessi ricominciare oggi da capo, cercherei di godere, assommandoli,questi due stati felici, il successo letterario e l’anonimato della persona; pubblicherei cioè le mie opere sotto un altro nome inventato: se la vita è già in sé piena di attrattive e di sorprese, quanto più lo sarebbe una doppia esistenza”. Alcuni scrittori di qualche generazione successiva lo hanno preso alla lettera. Tra essi val la pena di ricordare Thomas Pynchon e Jerome David Salinger.