L’orrore dell’Isis anticipato da Dickens
La felice sorpresa questa volta porta in calce due nomi. Il primo è quello del più grande romanziere inglese: Charles Dickens. Il secondo è quello di uno dei più acuti e sensibili critici letterari di sempre: l’austriaco Stefan Zweig. I loro nomi campeggiano sulla copertina di un Oscar Mondadori (collana Oscar classici) da poco tornato in libreria: Una storia di due città (traduzione e introduzione di Mario Domenichelli). Si tratta di una felice sorpresa perché il testo di Zweig è un piccolo capolavoro di esegesi. Non sul singolo testo, bensì sull’opera intera dell’autore di Grandi speranze. Uno dei libri più conosciuti dell’autore austriaco è infatti un “trittico” dedicato all’opera di tre grandi maestri del romanzo europeo Balzac, Dostoevksij e appunto Dickens. Riprendendo quindi le tesi già presenti in Tre maestri, con parole di una semplicità disarmante e usando concetti elementari Zweig arriva al nocciolo della questione individuando perfettamente le ragioni che fanno di Dickens un maestro inarrivato. Non si limita a elencarne pregi e caratteristiche (non scordando nemmeno i pochissimi difetti dell’autore del Circolo Pickwick), bensì lo contestualizza e lo inserisce nel canone letterario con un mano leggera ma sicura. Varrebbe la pensa di acquistare il volume soltanto per godersi questa appendice (una ventina di pagine). Varrebbe la pena perché sono pagine affatto illuminanti. Non solo spiegano l’arte poetica di Dickens ma anche le ragioni del suo successo in patria e nelle generazioni successive, sia in Inghilterra che all’estero.
Ecco soltanto qualche piccolo esempio: “Shakespeare fu l’incarnazione dell’Inghilterra eroica, Dickens solo il simbolo di quella borghese”; “L’arte allora [al tempo di Dickens] per piacere doveva essere digestiva, non doveva disturbare, non emozionare, non scuotere, ma solo carezzare e titillare”; “Nei libri come nella vita [i contemporanei di Dickens] volevano solo passioni temperate. La felicità si identificava con la comodità, l’estetica con la costumatezza, la sensualità a sua volta con la pruderie, il sentimento nazionale con la lealtà, l’amore col matrimonio”.
Secondo Zweig l’arte di Dickens è nutrita “della morale ipocrita della comoda Inghilterra sazia”. E se dietro la sua opera “non vi fosse una così straordinaria forza poetica, se il suo humour sfavillante e iridescente non coprisse l’intera mancanza di colore dei sentimenti, egli sarebbe apprezzato solo dal mondo inglese e sarebbe indifferente a noi, come quelle migliaia di romanzi che vengono elaborati di là dalla Manica da gente abile. Solo quando si dia con tutta l’anima la stupida ipocrisia della cultura vittoriana si può misurare interamente il genio di un uomo che ha trasformato in poesia la prosa più banale della vita”.
Per sottile paradosso in questa sintetica ma acuta analisi proposta di Zweig l’unico titolo considerato non all’altezza con le ambizioni di Dickens è proprio Una storia di due città. Al quale calza a pennello un’altra delle celebri sintesi del critico austriaco: “Tentò sempre di arrivare alla tragedia e giunse sempre e solo al melodramma”. Eppure il romanzo in questione è assolutamente da leggere. E’ vero che forse è il più ideologico dei romanzi dickensiani ma la struttura narrativa, lo stile facondo e colorato e la maestria dell’autore nel tratteggiare i suoi personaggi lo rendono affascinante. E poi c’è la questione della tragedia vissuta dal popolo francese (e segnatamente parigino) a cavallo del 1789.
Le descrizioni dei processi sommari, le decapitazioni di massa nella vivida descrizione che ne fa Dickens fanno subito pensare – al lettore di oggi – alle atrocità dell’Isis. E la spietatezza dell’odio ideologico e di classe ricordano le più intense pagine del russo Vasiliij Grossman (1905-1964) il cui Vita e destino non è soltanto un capolavoro della letteratura ma anche una irrinunciabile lente di ingrandimento sulle pieghe più oscure e drammatiche dell’Unione sovietica staliniana.
Non è un caso che uno dei più entusiasti lettori di Dickens sia stato Karl Marx. Il filosofo tedesco ebbe a dire in un articolo apparso sul New York Tribune nel 1854 che i romanzi di Dickens “hanno donato al mondo più verità politiche e sociali di quelle pronunciate da professionisti della politica, pubblicisti e moralisti messi insieme”. E non è nemmeno un caso che l’espressione “nemico di classe” faccia una delle prime apparizioni proprio in questo romanzo. Forse avrà ragione Zweig. Forse Una storia di due città non è il titolo più rappresentativo di Charles Dickens. Eppure proprio dalle pagine di questo romanzo si possono rivivere con immediatezza il dolore delle vittime e l’inganno ideologico che hanno caratterizzato gli anni del Terrore. Se è pur vero che questa storia finisce alla maniera di un melodramma, la stragrande maggioranza delle pagine dedicate alla povertà dei parigini, alla cultura del sospetto dei “rivoluzionari di professione” ci riportano alla purtroppo durevole malattia della modernità: la malattia del fanatismo ideologico.