Le illusioni perdute e il ricordo di una manciata di more
La cecità ideologica che buona parte della sinistra sta dimostrando nelle reazioni alla notizia dell’accordo raggiunto tra Israele e rappresentanti palestinesi mi ha riportato alla mente alcuni passi di un romanzo la cui lettura renderei obbligatoria per i liceali. Si tratta di Una manciata di more di Ignazio Silone. Pubblicato nel 1952 quando l’autore aveva archiviato da tempo e definitivamente la sua militanza nel Pci, il romanzo offre un doppio registro: da un lato è una delle più taglienti critiche al Partito di Togliatti che si possano trovare nella nostra letteratura novecentesca, dall’altra è l’esaltazione dell’individuo e della sua umanità. Senza dimenticare la descrizione quasi nostalgica e venata di un poetico realismo magico di quel mondo rurale dal quale lo stesso Silone proviene. Il protagonista è Rocco, un giovane ingegnere che passa dalla Resistenza alla militanza nel Pci, e che spera che la liberazione da un regime consenta alla sua terra abruzzese martoriata non solo dal latifondo ma anche dal terremoto di godere di una vera palingenesi. L’ottusità di quei quadri comunisti, appena usciti dalla guerra, che non riescono a vedere le reali necessità degli individui accecati dagli interessi di una massa sempre più astratta, ricorda i pro-Pal di oggi. E infatti sarà proprio la profonda umanità di Rocco a renderlo inviso al Partito quando cerca di incontrare la madre di un soldato sommariamente giustiziato da un gruppo di partigiani. Il suo gesto di umanità lo tradisce e diventa un’accusa precisa da parte del partito (“Non conosco castigo peggiore d’un confronto permanente con la propria vigliaccheria”, confessa alla sua amata, quando ormai deve fuggire come ai tempi in cui era il regime fascista a perseguitare i paladini degli umili). Accanto a Rocco c’è la militante convinta Stella. I due vivono una rapporto d’amore che supera le divisioni ideologiche solo a patto di un passare una via Crucis penosa e umiliante. Con loro spiccano le figure di don Vincenzo e del mitico Lazzaro, il vecchio capopopolo che riusciva con uno squillo di tromba a riunire braccianti, scalpellini, pastori e disoccupati. Un romanzo che scuote le coscienze e che si trasforma nel corso dello stesso racconto da invettiva contro le ideologie novecentesche a disillusa difesa di un umanesimo radicale. Le stesse pesanti accuse che vengono rivolte al giovane ingegnere dal funzionario del partito di Roma oggi sarebbero viste come un complimento: “E’ un uomo tormentato, un individualista. Egli non ha voluto riconoscere che i problemi dell’uomo non possono essere risolti dall’uomo ma dal Partito”? Contro l’ottusa militanza ma anche contro le illusioni che hanno animato i cuori di molti giovani che vedevano nella liberazione un nuovo Risorgimento. “Hai la tristezza di chi partì per andare molto lontano e alla fine si ritrova al luogo di partenza – dice una vecchia a Rocco -. A scuola non ti avevano spiegato che il mondo è rotondo”. Ben prima del Gattopardo il romanzo di Silone diventa una requisitoria contro la retorica del cambiamento a tutti i costi. E la figura del “paratore” (colui che nei paesi si occupava di luci e festoni per le feste) sarebbe sicuramente piaciuta a Tomasi di Lampedusa. Del suo armamentario non butta niente, spiega, perché tutto può sempre tornare. “La Stella d’Italia ad esempio l’ho ribattezzata Stella d’Oriente, senza contare che a Natale mi serve magnificamente come Stella di Betlemme”.
Il riscatto dei poveri non arriva. E fuori dalla chiesa un corrivo imbonitore vende senza problemi quel “sapone miracoloso” che rende le mani callose dei braccianti lisce e pulite come quelle dei signori. Alla fine il nemico numero uno per chi vive strappando giorno dopo giorno alla Natura il pranzo e la cena, è sempre lo stesso: il destino. E l’immobilismo non è che la resa a una condizione che soltanto l’umanità e la solidarietà tra eguali può muovere. “I mutamenti accaduti con la guerra – spiega il narratore quando passa a raccontare le vicende di questa comunità contadina dopo la liberazione – portarono anche in quella remota valle sorprese e illusioni; ma, per finire, piovve e nevicò, e i poveri rimasero poveri”. Nel corso del racconto, tuttavia, il seme delle speranza non muore perché cullato e difeso non solo dalla concretezza dell’umile ma anche dal valore del mito, rappresentato proprio dalla tromba del capopopolo Lazzaro che nel corso del regime i i fascisti hanno tentato di requisire.
