Umano, troppo umano. Ma è un cinghiale
Adesso, appena finito di leggerlo, mi si impone soltanto una domanda. Meglio una curiosità. Sarei davvero curioso di sapere quali sono state le letture più appassionate che ha fatto Giordano Meacci, autore del fortunato Il cinghiale che uccise Liberty Valance (Minimum Fax, pp. 452, 16 euro). Un libro fresco e a suo modo geniale. Però non facile. Al contrario. Un romanzo impegnativo che però lascia sicuramente il segno. Questo romanzo si concentra in un piccolo quadrilatero incastrato tra alcuni borghi (immaginari) al confine tra l’Umbria e la Toscana. Hanno già detto che si tratta di una sorta di Spoon river per quel suo essere un romanzo corale. Tanti personaggi, tre generazioni che si susseguono, per raccontare la vita di Corsignano. Questo paese “da romanzo”, al confine del quale, un giorno fa la sua comparsa Apperbohr. Un nome quasi impronunciabile per un esemplare di cinghiale davvero insolito. Non solo per la striscia rossastra di pelo che gli gira intorno alla testa quasi fosse un faceto collare. Apperbohr è più unico che raro perché finisce per trovarsi – anche suo malgrado – in una sorta di terra di mezzo tra i suoi simili e gli umani. E questo per il semplice fatto che viene folgorato dal dono del logos. Lentamente inizia a capire gli umani, le loro parole, il modo che hanno di associare i suoni alle cose (e persino agli stati d’animo). Una rivoluzione! Per il cinghiale di Meacci è però l’inizio di qualcosa di impossibile. Come quando scopre la suggestiva potenza catartica della musica di Bach eseguita da Glenn Gould. Quasi impazzisce dal piacere e dall’emozione. Ma non trova le parole per descrivere la musica. E soprattutto sa che i suoi sodali non sono in grado di comprenderlo. Stessa cosa quando scopre la morte. Un’altra esperienza, questa, che lo segna, quando il suo compagno di sventura Chraww-nisst stramazza con il ventre squarciato da un colpo di fucile. “Apperbohr – suggerisce il narratore – ha capito che quando le parole non ci sono bisogna trovarle, masticarle come se fossero ossa di cervo da spolpare: e se al dio delle parole non va bene allora che si perda”. Ma il romanzo è molto più di questo. E’ una storia corale, abbiamo detto, dove il microcosmo di un immaginario paesino toscano serve per condensare l’umanità, le sue specifiche qualità, condizioni, difetti, speranze e paure. Giovani cinefili (col pallino del dialogo filosofico), prostitute felici e prostitute angosciate, bottegai, cacciatori impenitenti, e altrettanto impenitenti giocatori d’azzardo, mogli fedifraghe, orfani, studenti allupati e zitelle inconsolabili. C’è di tutto. E tutto è servito da Meacci con un mimetismo linguistico davvero insolito di questi tempi. Come ha bene spiegato Bruno Ventavoli sulla Stampa, Meacci tiene “insieme tutto, quadrupedi e bipedi, parolacce e Schopenhauer, azzardo e sesso, cinefilia e dispacci di carabinieri, cantico della natura e dicerie di bar, con una lingua tracimante, multiforme, famelica, irta di subordinate come le strade che s’inerpicano sui colli e ti conducono alla spietatezza sommersa della vita”. In uno dei romanzi sicuramente più interessanti degli ultimi anni.
Ed ecco che torniamo alla domanda/curiosità iniziale. Cosa c’è sotto questo “fiore” bellissimo? Su quale humus è cresciuto? Possiamo di certo supporre che ci sia molto cinema (e non solo d’autore), molta letteratura americana. A partire dal già citato Edgar Lee Masters. In tanti hanno già scomodato l’autorità di Gadda. Impossibile, poi, non pensare a Orwell. In qualche modo la sua Fattoria è stata trapiantata anche a Corsignano. Ovviamente però c’è molto di più. E forse la lista che lo stesso Meacci potrebbe fare risulterebbe lunghissima. Non sarebbe male, però, avere qualche indizio. Magari dall’autore stesso. O dai suoi più brillanti lettori. Sarebbe come avere tutti gli ingredienti di un piatto prelibato. Magari non riusciamo a riprodurlo ma già sapere quali sono i condimenti necessari e tuttto il resto è di aiuto. Fa bene sperare gli aspiranti cuochi.