Un libro (anzi due) e un film. Per parlare di editoria. Iniziamo dal libro (il primo). Si intitola Sull’orlo del precipizio. Lo ha scritto Antonio Manzini e lo ha pubblicato, or non è nemmeno un anno, Sellerio. E’ un piccolo romanzo, un romanzo breve (appena 115 pagine). E come solitamente accade ai romanzi brevi, è un racconto a tesi. L’autore immagina come dovrebbe essere il mondo visto dalla prospettiva di uno scrittore nel giorno (che si spera ovviamente non arrivi mai) in cui l’industria culturale perda completamente quel “di più” (o “di meno”) che la distingue dal resto della produzione seriale e dell’economia di scala. Il nostro, l’autore, probabilmente ha trovato spunto da un fatto: il matrimonio tra Mondadori e Rizzoli, avvenuto proprio l’anno passato. E infatti il protagonista Giorgio Volpe si trova a vivere una disavventura dai contorni kafkiani quando porta il suo ultimo manoscritto nella sede della vecchia casa editrice. Dopo una improvvisa fusione tra marchi internazionali, i suoi vecchi editor vengono mandati in pensione e lo scrittore si trova a fare i conti con ambigui personaggi che vorrebbero ridurre il suo lavoro a un prodotto omologato e per nulla differenziato.  Manzini ha una penna che funziona alla grande. Il racconto scorre veloce e si arriva facilmente alla fine del romanzo tutto d’un fiato. Manzini raggiunge, con ogni probabilità, il suo obiettivo se il lettore chiude il romanzo con un sentimento di leggero disagio. Se il lettore aggrotta la fronte e inizia a pensare: “davvero questo potrebbe succedere?” Manzini avrà fatto centro. Il suo è un monito, un atto d’accusa, ma ancor più è il segnale d’allarme su quanto rischia di scadere l’industria editoriale se non mantiene vive le differenze tra marchi editoriali, se non esalta le cifre originali degli scrittori, se non rende la lingua di ogni lavoro edito ineguagliabile, e il lavoro in sé compiuto con pacata lentezza e con garbo certosino. Insomma fare un libro (scriverlo, editarlo, pubblicarlo, promuoverlo e venderlo) non è  e non sarà mai come produrre e vendere jeans. Però il rischio che un domani si possa arrivare a qualcosa di simile è per Manzini tutt’altro che scongiurato. Il libro val la pena di essere letto, ma credo che il furor di Manzini andrebbe meglio indirizzato. A mio avviso tutti sono responsabili dell’impoverimento del mercato editoriale. Che in se stesso non può rappresentare altro che una sorta di specchio della società. Anche gli scrittori non sono eslegi da critiche e non possono chiamarsi fuori. Non si tratta soltanto di fusioni aziendali, di diritti d’autore, di strenne e di rese, da bilanciare per ridurre i costi e i rischi finanziari.  Se lo scrittore trova la voce adatta per penetrare nel cuore del lettore avrà sempre vinto una battaglia che diventerà un credito per il futuro. Perché un lettore soddisfatto è un cliente potenziale. E un lettore “forte” è un cliente che diventa giorno per giorno sempre più esigente. Al contrario di quello che si pensa, un buon mercato editoriale non può essere fatto da titoli sempre peggiori, che si omologano ai gusti dozzinali della fascia bassa del pubblico, ma da titoli sempre migliori che prendono quella stessa fascia bassa – la più numerosa, d’altronde – e la portano ai piani del dibattito culturale.

E magari qualcuno di questi lettori, un tempo debole, ma rafforzato dall’abitudine alla lettura di buoni testi, potrebbe trovare un interesse tutto particolare nell’andare al cinema per ammirare il film Genius diretto dal Michael Grandage. Il film  – ambientato negli anni Venti a New York – racconta dell’incontro e dell’amicizia tra Thomas Wolfe (Jude Law) e Max Perkins (Colin Firth) . Il primo è un giovane e irrequieto scrittore. Dalla sua c’ha genio e sregolatezza. E ovviamente tanto fascino. Il secondo è un famoso editor. Nel suo personalissimo “kindergarten” si prende cura di personaggi del calibro di Francis Scott Fitzgerald e Ernest Hemingway. Solo la cura maniacale, il lavoro lento e ponderato, la totale dedizione che Perkins mette nel rendere i lavori dei suoi “clienti” leggibili e comunque fruibili al pubblico dei lettori, fa di questi romanzi dei titoli di alto valore letterario. Senza il suo intervento sarebbero imperfetti, imprecisi, sfocati, ambiziosi nel modo sbagliato. E sicuramente troppo prolissi. Wolfe è poco conosciuto da noi. In America comunque è considerato una sorta di James Joyce a stelle e strisce. La sua prosa vulcanica e debordante ha dato non pochi problemi a editor e traduttori, ma titoli come Look homeward, Angel! (la cui prima traduzione EinaudiAngelo, guarda il passato – è del 1949, vent’anni dopo il suo debutto sulla scena newyorkese) restano come pietre miliari del Grande Romanzo americano del Ventesimo secolo. Il film, però, si raccomanda soprattutto perché mostra come si producevano i libri negli anni Venti. Per noi che ormai abbiamo quasi del tutto rinunciato alla carta, fa impressione vedere esattamente quante persone servissero per la cura di un singolo titolo negli anni Venti, con quanta attenzione e dedizione venissero quei manoscritti trasformati e accompagnati fino alle vetrine delle librerie. Una descrizione quasi commovente per quanto lontano è quel modo di essere e lavorare rispetto al nostro.

Se poi vogliamo sapere esattamente come lavora e vive chi si dedica ai libri e ai romanzi nella New York dei nostri giorni consigliamo la lettura dell’ottimo volume di Giulio D’Antona Non è un mestiere per scrittori (pubblicato quest’anno da Minimum Fax). Da Jonathan Galassi (forse il miglior editor in circolazione oggi, quindi una sorta di Max Perkins dei giorni nostri) a Gary Shteyngart, sono tanti i personaggi della scena editoriale americana che D’Antona incontra nel suo lungo viaggio. Un viaggio utilissimo al lettore, per smitizzare quella frontiera americana, che si vuole spesso vedere come ultimo paradiso della letteratura contemporanea, ma al contempo che ci dimostra come – pur con tutte le differenze del caso – ancor oggi è capace di coltivare talenti e di fare un lavoro editoriale di sicuro impatto culturale.

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