Ci sono romanzi che dovremmo riprendere in mano ciclicamente. Non per la loro qualità letteraria (o meglio non solo) e nemmeno perché ospitano personaggi memorabili. Bensì perché sono ambientati in momenti storici cruciali e in luoghi simbolo. Quindi sono delle pietre miliari della memoria collettiva. Prendete per esempio Eravamo dei grandissimi di Clemens Meyer appena pubblicato dall’editore Keller (traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero). In Germania questo romanzo ha spopolato. Ed è facile intuirne il motivo. Racconta la vita di un gruppo di ragazzi nati sul finire degli anni Settanta a Lipsia e quindi ancora adolescenti quando il Muro di Berlino viene giù e con il suo crollo svanisce anche l’impalcatura dell’ideologia comunista del blocco sovietico. Meyer racconta questi ragazzi, la loro vita al confine della legalità, come se non ci fosse un passato e nemmeno un futuro. Le tracce del regime sono praticamente inesistenti. Non tanto nell’arredo urbano o nell’architettura, quanto proprio nella vita delle persone, delle famiglie. Meyer ha buon gioco di scegliere una narrazione alla Trainspotting (celeberrimo romanzo di Irvine Welsh), lasciando che il romanzo di formazione di questa generazione senza ricordi e senza prospettive si nutra del più dissacrante disincanto possibile. Ad illuminare la scrittura di Meyer è proprio la voglia  che questi ragazzi sentono di vivere come se non ci fosse un domani. Vivono senza regole e senza codici. Oltre al senso dell’amicizia e dell’essere parte di un gruppo, non hanno altri vincoli e legami. Colpisce poi la velocità con cui la Germania dell’Est si allinea ai peggiori vizi e difetti del mondo occidentale. Il Muro non è ancora crollato del tutto che già l’ultima generazione nata prima della riunificazione è falcidiata dalla droga.  I cinema chiudono lasciando il campo ai porno-shop e i riti sociali si limitano soltanto alle partite di calcio allo stadio e ai rave nelle aree industriali abbandonate. In questo paesaggio quasi apocalittico torna alla mente una massima dello scrittore inglese Samuel Johnson  “La storia dell’umanità è quasi totalmente una narrazione di progetti falliti e di speranze deluse”.  E il romanzo di Meyer è estremamente efficace nel raccontarci il fallimento del progetto di una società comunista. E lo fa quasi senza nominarne l’ideologia. Gli basta descrivere il mondo in cui si è dissolto quasi all’improvviso, e il deserto interiore che ha provocato e lasciato come sua ultima eredità.

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