Dumas, il Superenalotto e il kitsch che diventa sublime
Un recente studio ha dimostrato che il romanzo che ha avuto più fortuna al cinema e in tv è Il conte di Montecristo E’ infatti il capolavoro di Alexandre Dumas a detenere il record di riduzioni cinematografiche e televisive. Mentre leggevo questa notizia riflettevo sul fatto che non avevo mai letto questo classico. A 54 anni mi sono così trovato a colmare una grave lacuna e a immergermi nelle 1100 pagine dell’ultima edizione Mondadori (egregiamente tradotta da Emilio Franceschini). A lettura conclusa posso dire con la più viva convinzione che Il conte di Montecristo è un libro straordinario. Un romanzo che può stare di diritto nel piccolo novero dei titoli “essenziali”. E sono contento di averlo letto da adulto per apprezzare dettagli e allusioni che sicuramente a quindici anni non avrei colto.
Adesso devo spiegare perché secondo me è un titolo essenziale. Innanzitutto perché tratta di un tema che è radicato in noi. Forse non è facile ammetterlo ma il sentimento della vendetta ci appartiene. A noi italiani, poi, più di altri popoli. Perché succede prima o poi di nutrire rancore verso qualcuno o qualcosa che consideriamo artefice del nostro insuccesso. C’è sempre un collega che ci ha soffiato il posto immeritatamente. Un amico che ha ottenuto dai genitori qualcosa che i nostri non vogliono o non possono darci e di cui il nostro amico si vanta. C’è sempre il belloccio palestrato che ha conquistato con estrema facilità il cuore del nostro amore platonico. E poi c’è sempre qualcuno (ma non noi, noi mai) che vince il Superenalotto. Ah, ci scopriamo a dire, l’avessimo vinto noi! Ed è l’unica cosa su cui siamo davvero preparati. Sappiamo sempre come potremmo spendere quei soldi, sappiamo benissimo cosa farci. Magari non per vendicarci o rivalerci di qualcuno. Ma almeno per godere un “futuro” più comodo e agiato.
Edmond Dantès no. Lui ha scoperto che l’unico vantaggio nel vincere al Superenalotto è quello di avere i mezzi per mettere in pratica il piano di vendetta. E lui ne ha ben donde. Non solo gli hanno soffiato la fidanzata (la bella catalana Mercedes) ma gli hanno rovinato la carriera (promettentissima di capitano della marina mercantile). I suoi nemici ne hanno pure provocato l’arresto (perché bonapartista). E così il nostro eroe ha passato 14 lunghi anni sepolto nel Castello di d’If, sul suggestivo scoglio che dista solo poche bracciate dal porto di Marsiglia. E per ultimo sfregio i “cattivi” hanno lasciato che il suo povero padre morisse di fame e hanno ridotto sul lastrico il suo datore di lavoro (l’armatore Morrel).
Contro tutte queste “disavventure” il futuro conte di Montecristo non potrebbe nulla se non scoprisse un compagno di prigionia davvero singolare. L’abate Faria è sicuramente uno dei personaggi più originali del romanzo di Dumas. Questi offrirà al povero Dantès tutta la sua ricchezza sepolta proprio nell’isola di Montecristo. Una ricchezza tanto vasta da permettere al nostro eroe, una volta fuggito rocambolescamente dalla colonia penale, di mettere in pratica il suo disegno di vendetta.
Tutti i cattivi che avevano portato la sua rovina si erano intanto creati una posizione di prestigio a Parigi. Alcuni avevano anche acquistato titoli nobiliari e accumulato ricchezze notevoli. Dantès riuscirà nel suo intento di vendicare la morte del padre e il suo penoso destino di carcerato. E sarà così efferata ed efficace, la vendetta, da oltrepassare abbondantemente i desideri dello stesso Montecristo, tanto che alla fine della storia, quando siamo ai commiati finali, si pentirà di aver “calcato troppo la mano”.
Prima di allora però è una macchina da guerra. E se qualche adolescente di oggi sta leggendo queste righe, mi permetto di paragonare Edmond Dantès al personaggio di John Wick (portato sul grande schermo da Keanu Reeves). Un vendicatore spietato ed efferato. Un vendicatore bello e pieno di fascino. Un vendicatore che conserva nel fondo del suo cuore una stilla di pietà per se stesso (prima di tutto) e per i deboli e le vittime di soprusi.
Insomma la sete di giustizia di Montecristo è come la nostra, cieca perché infantile. Lui muove il mondo con il suo denaro e l’efficacia delle sue relazioni. E questo gli permette di divenire quasi deus ex machina che risolve i conflitti e scioglie le situazioni drammatiche. Però non è Dio e di questo a fine romanzo se ne rende pienamente conto. Lui meglio dunque di noi, lettori modesti e che abbiamo avuto il nostro eroe nella tragica figura di Giovanni Vivaldi, il protagonista del romanzo di Vincenzo Cerami Un borghese piccolo piccolo (Garzanti), poi portato sul grande schermo da un bravissimo Alberto Sordi.
Il romanzo di Dumas, però, non è solo un efficacissimo feuilleton. E’ un romanzo dove si può trovare tutto e soprattutto tanti temi validi ancor oggi. C’è per esempio il tema dell’emancipazione femminile (a vari livelli e a diversi gradi), quello dell’emancipazione dell’amore omosessuale (la fuga della giovane Eugenie Danglers da un matrimonio combinato è tra le cose più divertenti e raffinate del romanzo), c’è il tema della violenza cieca di un figlio irriconoscente e sedotto solo dalla ricchezza facile (il giovane Benedetto elimina a colpi di vanga insieme con i suoi amici la “madre” adottiva Assunta, in una modalità che ricorda vividamente il fatto di cronaca che ha visto protagonista Pietro Maso nel 1991). Poi c’è la figura del vecchio Noirtier (l’ex generale bonapartista, ridotto da un ictus alla totale infermità, capace di comunicare soltanto con le palpebre degli occhi, eppur vitalissimo e efficace nella sua condotta). Questi solo per citare i primi che mi vengono in mente. Il romanzo però è ricco di spunti e di agganci con il nostro presente. Il conte di Montecristo è un libro che si può leggere con godimento e profitto. E scommetto si potrà farlo ancora per molto. E poi c’è la lingua di Dumas. Forse un tantino ridondante (d’altronde doveva essere il più verboso possibile, visto che lo pagavano a misura), però mai inutile. Ogni descrizione è un affresco immaginifico. Ogni personaggio è ricco di infinite sfumature. E tutte le coincidenze e le peripezie romanzesche non sono soltanto invenzione, ma rispondono anche a un più profondo grado di scandaglio della natura umana. Ecco perché mi trovo in aperto disaccordo con Umberto Eco che definì questo capolavoro “troppo kitsch” e “mal scritto”. Parlando di Alexandre Dumas, Eco ebbe a scrivere: “l’eccesso può persino ribaltare la cattiva scrittura e la banalità in tempesta wagneriana. Un solo cliché è kitsch, cento cliché sparati senza pudore diventano epici. Il conte di Montecristo è mal scritto, ridondante e verboso, ma che proprio per queste qualità spinte oltre il limite del ragionevole sfiora il sublime”. Il sublime non è stato sfiorato. Qui il sublime è stato centrato in pieno.