Ho appena finito di rileggere Il soccombente di Thomas Bernhard (Aldephi). E la prima cosa che ne ho ricavato è un dubbio. Chiuso il libro ho iniziato a dubitare che la lettura sia un’attività solitaria. Può esserlo, certo. Può però non esserlo. Perché dal confronto con altri lettori sullo stesso testo si possono ricavare spunti “esegetici” affato imprevisti. Di sicuro il loro punto di vista è molto diverso dal nostro e uno scambio non può che arricchirci. Se sono tornato sopra le celebri pagine di Bernhard lo devo a Gaja Lombardi Cenciarelli. La nota scrittrice e raffinata traduttrice (Wharton e Atwood, tra gli altri) parlandomi del Soccombente ha usato l’espressione “opera mondo”. E quest’espressione mi ha fatto riflettere. Per due motivi. Il primo è che conosco bene il significato di questa espressione. E il secondo è che non la riconoscevo adatta per il romanzo di Bernhard.

È vero che la mia memoria è piuttosto difettosa (d’altronde è di sicuro passato qualche lustro da quando mi sono imbattuto nel Soccombente la prima volta).  Però ricordavo bene che la storia ruotava tutta attorno all’amicizia tra tre musicisti. Due dei quali anonimi virtuosi senza futuro. Mentre il terzo rispondeva addirittura al nome di Glenn Gould. Sì, questo ricordavo del romanzo di Bernhard: una voce narrante che parlava senza sosta (senza nemmeno un accapo!) due suoi amici Wertheimer  e Gould. Raccontava di come il primo si fosse suicidato, superato il mezzo secolo di vita, per la disperazione di non reggere il confronto con Gould. E di come quest’ultimo, invece, sia morto esattamente come avrebbe voluto, cioè di colpo mentre suonava le sue tanto amate Variazioni Goldberg.

Ma che c’entra l’etichetta di “opera mondo”? Mi sono trovato a pensare mentre ascoltavo la descrizione della Lombardi Cenciarelli. La mente è andata subito al fondamentale saggio di Franco Moretti. L’illustre comparatista aveva infatti intitolato proprio così un suo saggio (per Einaudi) in cui raccontava di quelle pietre miliari della letteratura di ogni tempo che gli storici fanno fatica a inserire in un canone preciso ma che per complessità narrativa, per ampio uso dello stream of consciousness, per sfruttamento consapevole dell’allegoria e della digressione, sono capaci di porsi ai lettori di ogni tempo. Lì si parlava di Moby Dick, di Cent’anni di solitudine. Addirittura del Faust goethiano. E io continuavo a chiedermi  “ma Bernhard? Davvero ha scritto un’opera mondo?” Considerata l’auctoritas della Lombardi Cenciarelli, ho evitato di discutere e obiettare. Più semplice tornare a casa, cercare il volume e riaprirlo.

Non ricordavo un incipit tanto inquietante come quello del Soccombente (“Un suicidio lungamente premeditato, pensai, non un atto repentino di disperazione”). Una frase messa in esergo, ma non presa da un altro autore bensì di Berhanrd stesso. Insomma il romanzo iniziava con una provocazione quasi da avanguardista e funambolo del testo letterario. Poi l’incipit vero è proprio: “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, ma è morto, come si suol dire, di morte naturale”.

Tutto il romanzo è un lungo monologo. In cui il narratore usando proprio il linguaggio dell’epica propone la storia di questi due personaggi: il primo simbolo del genio, il secondo di una ambizione frustrata. In effetti le vite abbastanza semplici (quasi scontate) di questi due “caratteri” diventano paradigmi di due eroi universali in cui si consuma tutto lo spettro possibile dei tipi umani. Bernhard ci racconta cos’è l’arte e cosa non lo è. L’arte è quella visione autentica del genio che sgorga quasi con naturalezza da una mente che deve essere non soltanto geniale ma anche naif e infantile. Ma la consapevolezza dell’arte ce l’hanno soltanto quelli che l’arte l’ammirano e la vedono fuori di sé, quelli in buona sostanza che possono diventare anche dei virtuosi del pianoforte, ma non Glenn Gould. Quelli che si macerano perché hanno perso la capacità di vivere una vita istintiva e senza rovelli celebrali. Quelli, in sostanza, che non riescono a non fare confronti a non chiudere gli occhi di fronte alle proprie sconfitte. E’ lo stesso Glenn Gould a trovare la definizione giusta per questo tipo umano. Gould chiama il suo amico Wertheimer “il soccombente” e lo fa senza malizia e senza senso di superiorità. Il genio infatti non ha nemmeno bisogno di riconoscersi superiore perché non guarda a queste meschinerie, preso com’è dalla pienezza del suo rapporto con l’arte. Ma è lo stesso Bernhard che per bocca del suo narratore completa la definizione e getta il lettore nel più totale sconforto.  “Il soccombente è già stato messo al mondo come soccombente, pensai, è stato da sempre il soccombente, e se osserviamo con puntigliosa attenzione il mondo che ci circonda, stabiliamo che questo mondo è composto quasi esclusivamente da uomini che soccombono, da uomini da vicolo cieco”.  Insomma mi sono ritrovato a pensare che un’opera mondo è in fondo proprio questo: un lungo racconto orale in cui ci insegnano come non soccombere di fronte all’ineluttabilità del destino. Come accettarla ed esorcizzarla. “Glenn – scrive in un altro passo Bernhard – è morto, pensai, nel momento per lui più favorevole, mentre Werheimer non si è tolto la vita nel momento per lui più favorevole, chi si toglie la vita non se la toglie mai nel momento più favorevole, mentre la cosiddetta morte naturale arriva sempre nel momento più favorevole”. Anche nella morte, cercata e voluta con teatralità esagerata, il povero Wertheimer perde il confronto col genio canadese. Ed è sempre questo il risultato quando si insegue l’arte dimenticandosi di vivere pienamente e con trasporto la (propria) eistenza.

Sì, aveva ragione la Lombardi Cenciarelli: Il soccombente è un’opera mondo.

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