Tra le cose che più hanno colpito la mia immaginazione, durante il primo lockdown, c’è senz’altro l’immagine di una Natura che rinasce e si riprende i suoi spazi. Esemplari a questo proposito le immagini dei canali veneziani tornati limpidi, cristallini e popolati di pesci. Sicuramente la convivenza tra uomo e Natura è divenuta nel corso degli ultimi secoli sempre più complicata. Fino al punto di rendere necessaria l’elaborazione di una teoria chiamata dello “sviluppo sostenibile”. Dobbiamo sì crescere, recita in buona sostanza questa teoria, ma con moderazione, cercando di valutare l’impatto ambientale di tutte le nostre azioni. D’altronde a ogni azione corrisponde sempre una qualche reazione e anche il lockdown imposto come strumento necessario per arrestare la pandemia ha degli effetti deleteri, soprattutto sul piano economico. Salvare vite dalla miseria o dal virus? Spesso si riduce a questo il dilemma di chi è chiamato a gestire l’emergenza. Appena mi è stato chiaro che di questo, in fondo, si trattava, mi è venuta voglia di riprendere in mano un classico della letteratura americana: Walden di Henry David Thoreau (nel mio caso nell’edizione Bur curata da Pietro Sanavio). Ottima idea riprendere questo libro. Scritto a cavallo tra il 1845 e il 1847 questo libro racconta la vita solitaria nei boschi del Massachussets. Non è solo un campione dell’immanentismo, Thoreau è anche un precursione della filosofia di vita della Beat generation che a suo tempo ha provato a contrastare la via al consumismo più corrivo con una filosofia di vita alternativa e radicale. I cui segni, tra l’altro, sono ancora visibili in quelle frange radicali dell’ambientalismo e del veganesimo. Thoreau scrive una sorta di diario filosofico della sua permanenza per due anni sul lago Walden. Isolato dal mondo e dagli uomini, Thoreau ha potuto sperimentare un diverso modo di vita: rispettoso della natura e allo stesso tempo meno invasivo. Un isolamento che gli ha consentito di misurare non soltanto le sue forze e le sue capacità ma anche gli ha permesso di interrogarsi sul fine ultimo dell’esistenza. Risposte le sue ovviamente vaghe e spesso confuse ma che hanno inciso profondamente sul pensiero americano moderno. Viene sì celebrato come un orgoglio nazionale anche se la sua pionieristica idea di “progresso sostenibile” ovviamente non ha fatto nel corso del Novecento molti proseliti.
Il lockdown che stiamo vivendo da più di un anno, però, ci ha messo spesso nelle condizioni di Thoreau. Non parlo ovviamente dell’estremo isolamento, bensì della necessità di fare rinunce. Anche materiali. Al netto delle tante categorie che purtroppo hanno subito la perdita del lavoro e il taglio delle loro attività, il lockdown ci ha condotti tutti a un cambiamento di vita che ha dimostrato che si può fare a meno di molto. Eppure l’economia mondiale è legata proprio alla perdita di questa consapevolezza. Dobbiamo consumare e soltanto consumando l’economia cresce e tutti si può vivere in buone condizioni economiche. Questo credo, purtroppo, non è più interamente e convintamente condivisibile. Rileggere Thoreau oggi potrebbe essere un giusto modo per realizzare che in futuro dovremmo tutti essere più consapevoli di quello che facciamo. Soprattutto per quanto riguarda le conseguenze del nostro stile di vita.
Con questo non si deve pensare di seguire alla lettera il radicale pauperismo di Thoreau. Però ammetto che leggere il suo diario con le sue osservazioni, in questo momento di angoscia e di isolamento, è un balsamo tonificante. Non c’è bisogno di seguirlo pedissequamente quando dice “Una persona onesta ha raramente bisogno di contare più delle sue dieci dita”, o quando osserva che “i re e le regine che portano un vestito per una sola volta sono soltanto degli attaccapanni cui si appendono vestiti puliti”. Di sicuro la descrizione dell’interno della sua capanna sul lago Walden funziona meglio e ci offre una chiave di lettura di un futuro più umano e più naturale: “Avevo tre sedie in casa: una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la compagnia”.

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