“I classici – ripeteva Italo Calvino – sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti”. Vero. Nel caso di Giro di vite di Henry James, però, questa scoperta continua, questo stupore rinnovato, accadono a ogni rilettura. Perché, ne converrebbe lo stesso autore di Marcovaldo, la gran parte dei classici si rinnova a ogni lettura. E il più celebre racconto “gotico” uscito dalla penna del grande scrittore americano è sicuramente tra quei libri che hanno in sé una potenza rigeneratrice fuori dal comune.
L’ho appena riletto a distanza di molti anni. Quel che alla prima lettura mi affascinò ovviamente era l’atmosfera da romanzo di genere, per non dire dei personaggi minori, della casa dalle grandi vetrate, del silenzio di fondo rotto soltanto da scricchiolii e da sinistri lamenti. Oggi tutto quel “colore” non mi appassiona più. E, come un bravo lettore di romanzi di genere, me ne compiaccio. Vado però oltre e rimango a dir poco stupefatto dalle raffinatezze stilistiche della lingua di James (tanto che mi sono ripromesso di affrontare il testo originale per una terza eventuale lettura).
La storia ormai è universalmente conosciuta. Due piccoli orfanelli, Miles e Flora, sono affidati a uno zio così indaffarato nella cura dei prorpi affari londinesi da non aver tempo per loro. Ecco che viene assunta una istitutrice (perno della storia, voce narrante, e per tuttavia l’unico personaggio rimasto senza nome). Il lavoro l’aspetta in provincia, in una grande villa nella contea di Bly. Qui il personale di servizio è gestito dalla signora Grose, l’unica a poter fare da trait d’union tra il presente torbido e inquietante e un passato oscuro e tragico. Un passato dove a farla da padrona nell’antica magione erano un maggiordomo senza scrupoli, Peter Quint, e una istitutrice, Miss Jessel, dalla dubbia moralità. E saranno proprio i fantasmi di questi due personaggi che la giovane, ingenua ma volenterosa e coraggiosa istitutrice incontrerà più volte nel corso della storia.
Il romanzo ha il suo motivo di interesse nello scontro di visioni soggettive della realtà. Anche, se non soprattutto, di quella più enigmatica e drammatica. L’istitutrice tenta prima di difendere l’innocenza dei bambini da queste incombenti “presenze”, poi inizia una sorta di capovolgimento dei fattori e là dove si credeva risiedesse l’innocenza si sospetta la presenza del male. D’altronde l’uso dei bambini come “portatori” di ambiguità nelle storie di fantasmi è un topos ormai più che abusato. Allora (stiamo parlando della fine del XIX secolo) era ancora una fresca invenzione che colpiva profondamente l’immaginazione dei lettori. L’ambiguità di questi bambini farà nascere nel profondo dell’animo della narratrice l’ossessione di un dubbio: i bambini hanno visto o no i fantasmi? E se li hanno visti, perché fanno finta di non vederli? Miles soprattutto rende insonni le notti della povera istitutrice. E’ tenerissimo e vispo. Eppure è stato cacciato dal collegio per una colpa inconfessabile. Poi è generoso e obbediente. Eppure prende iniziative singolari per un ragazzino della sua età.
Aggiungete poi a questi ingredienti un occhio scenografico che sarebbe piaciuto ai grandi registi cinematografici come Visconti e KubricK. E la ricetta del capolavoro è bella che squadernata.
Qui non svelerò il finale per non togliere il piacere della scoperta ai lettori che ancora non hanno affrontato questo capolavoro. Qui mi limito a dire qual è il carattere del libro che mi sembra rinnovi il fascino di questo romanzo a ogni rilettura. La sua forza risiede nell’ambiguità che dalla lingua e dallo stile si trasfonde nella descrizione dei luoghi e dei personaggi. Fino a lasciare il lettore nella straordinaria posizione di assegnare un di più di senso al non detto e al semplicemente vagheggiato e tratteggiato.
D’altronde il romanzo inizia come un racconto di un racconto. E le memorie della giovane istitutrice sono già scritte e semplicemente riportate come una confessione anch’essa ambigua e piena di zone d’ombra. Insomma lo stesso James, da scrittore magistrale qual è, si è impegnato in una sorte di divertissement, partendo da un canone preciso (e in fin dei conti fin troppo sfruttato) e ne ha fatto una “palestra” per il suo understatement e per la sua vena ironica. Basta rileggere il momento centrale del racconto, quello in cui per la prima volta la giovane istitutrice si imbatte nel fantasma di Peter Quint, per rendersene conto. “Odo ancora, mentre scrivo, l’intenso silenzio in cui si cessarono tutti i suoni della sera. Le cornacchie smisero di gracchiare nel cielo dorato e l’ora amica smarrì, per quell’orribile momento, tutta la sua voce. Ma non ci fu nessun altro cambiamento intorno a me, se cambiamento non era vedere con tanto singolare chiarezza. L’oro luccicava ancora nel cielo, l’aria era limpida e l’uomo che mi osservava da sopra i merli risaltava quanto un ritratto nella sua cornice. Ecco perché pensai, con straordinaria rapidità, a tutti coloro che egli avrebbe potuto essere e che non era. Ci fissammo attraverso lo spazio abbastanza a lungo perché potessi chiedermi ansiosamente chi fosse mai, e provare, dinanzi all’incapacità di rispondervi, uno sbigottimento che, a poco a poco, si faceva sempre più intenso”. Questa è letteratura. I romanzi (bellissimi) di Stephen King rimangono solamente ottima (anzi magistrale) narrativa di consumo.

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