Qualcuno prima o poi dovrà raccontare questi giorni, questo tempo. Con la giusta distanza. Dovrà dirci se è vero che l’emergenza sanitaria ci ha resi migliori. Dovrà verificare se saremo stati in grado di elaborare lutti e separazioni. E se la sottrazione di tutto ciò che avevamo prima abbia impoverito o meno la nostra esistenza.

Ci vuole, però, la giusta distanza. Quella che ha sfruttato Cesare Pavese per scrivere nel 1939 il romanzo breve Il carcere e per scrivere dieci anni dopo l’altro breve romanzo La casa in collina, poi confluiti nel volume Prima che il gallo canti. Il primo rielabora un’esperienza diretta, vissuta dall’autore nel 1935. Pavese fu mandato al confino nel paese di Brancaleone (RC).  Agli anni della guerra, e più precisamente alla stagione convulsa seguita all’armistizio dell’8 settembre del ’43 fa riferimento il racconto lungo La casa in collina.

Mi sono trovato a rileggere questo volume (edizione Einaudi con una preziosa introduzione di Italo Calvino), nell’estate che ci avrebbe dovuto emancipare dall’emergenza sanitaria, nell’estate che abbiamo vissuto come barricati in rifugi antiaerei mentre i telegiornali rimbalzavano le notizie sulle devastazioni provocate da Lucifero (l’ondata di caldo torrido) e dalle mani dei soliti piromani. Sembravano gli echi di guerre non più così lontane. Tuoni e bagliori così ravvicinati da farci perdere il sonno e la tranquillità.

Una simile inquietudine viveva il giovane insegnante Corrado. Dalla casa in collina sopra Torino, dove aveva trovato albergo, guardava i bagliori dei bombardamenti (tedeschi? americani?), cercando di non perdere contatto con le persone (per lo più sfollati) che quotidianamente scendevano in città per cercare chi un parente disperso, chi qualche oggetto personale, chi semplicemente una ragione per andare avanti.

Nei due racconti i protagonisti non riescono, però, a entrare in comunione con l’ambiente che li ospita.

Il villaggio calabrese ancorato a ritmi e leggi ancestrali, dove l’ingegner Stefano è stato mandato al confino, ricorda la Lucania che solo qualche anno dopo Carlo Levi tratteggerà nel suo capolavoro Cristo si è fermato a Eboli. Ma non c’è la voglia di capire la realtà così “altra” rispetto alla grande città del nord da cui proviene. La reclusione, la vita coatta, e la lentezza dei ritmi di vita spingono Stefano a un’indagine di autocoscienza. Senza indulgenze. E senza facili pietismi.

Stesso asciutto registro che ritroviamo nel racconto che vede per protagonista Corrado, fresco di laurea e di ideali antifascisti, Le devastazioni della guerra non lo portano a una scelta di campo. Semmai lo spingono ancora più lontano dal teatro di guerra. Nella loro precipitosa e disordinata ritirata i tedeschi distruggono e rastrellano e a Corrado non resta che fuggire con mezzi di fortuna (gli unici possibili allora) nel paese natale, sopra le Langhe.

E questa stessa fuga, come l’apatica riservatezza dell’ingegnere torinese nel paesino calabrese, finisce per essere una valida metafora di quel tradimento degli intellettuali nel contesto della guerra civile che ha flagellato l’Italia tra gli anni Trenta e Quaranta.

Rileggere oggi Pavese, alla luce delle nostre emergenze epocali (il virus, i cambiamenti climatici, la profonda crisi economica, le migrazioni “bibliche”) ci spinge a riflettere: siamo capaci di affrontare queste prove e superarle sentendoci finalmente migliori? Oppure abdicheremo ancora una volta al nostro ruolo?

Sul virus e sugli sconvolgimenti climatici riusciranno i nostri “intellettuali”, insieme con la nostra classe dirigente, a risvegliare il senso civico e l’impegno collettivo?

I romanzi di Pavese restano lì a esemplare testimonianza che una risposta ancora non è stata data. Ora non resta che attendere la giusta distanza e qualcuno che azzardi una risposta.

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