Prima o poi sarebbe successo. D’altronde dove se non qui? Dove se non in un blog che parla esclusivamente di “classici”? Di libri che superano la prova del gusto corrente per proporsi come lettura anche per le generazioni successive? E infatti eccomi qui a parlare di Perché leggere i classici di Italo Calvino (nella prima edizione Mondadori del 1991). Si tratta di una rilettura, spinto dal desiderio di rinfrescare la memoria su un testo che mio figlio aveva l’obbligo di leggere durante le vacanze estive.

Per chi non lo conoscesse, il libro raccoglie alcuni interventi che Calvino è andato scrivendo nel corso degli anni. Interventi dedicati a grandi scrittori. In alcuni casi anche a “colleghi” del suo tempo. La cornice è stata data in un secondo momento. E i testi raccolti hanno avuto come comun denominatore quello di appartenere alla categoria calviniana dei classici. Ecco: iniziamo da qui. Nella sua prefazione il padre di Marcovaldo ci spiega con dovizia di dettagli cosa è un classico. Calvino nella prefazione del libro squaderna proprio un elenco di definizioni di classico. Tutte vengono accompagnate da un commento/spiegazione. Tranne la numero 4 e la numero 5. Perché sono perfette e chiarissime anche senza spiegazione: “D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima” e “D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura”. Forse non sono le definizioni più famose pescate da questo libro (ben altra fortuna ha avuto “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”). Per me, però, rappresentano due punti fondamentali. Un libro ha valore perché parla a tutti i suoi lettori. E visto che non ci si bagna due volte nello stesso fiume, anche i lettori cambiando e crescendo maturano nuove sensibilità e nuovi modi di leggere. E a loro lo stesso testo è capace di rivelare nuovi dettagli. In un percorso praticamente senza fine.

Non mi piegherò al facile colpo di teatro per fare anche di questo libro un classico (spiegando magari perché a ogni rilettura diventi un nuovo oracolo). Anche perché i libri di cui si parla sono sì classici riconosciuti universalmente, ma in questo caso lo sono soprattutto per Calvino e sono tra i libri che ne hanno fatto lo scrittore e fine lettore che tutti conosciamo. Sfrutto questa rilettura, invece, per pensare al “canone” in generale. Il canone, come si sa, è una lista di titoli imprescindibili per celebrare quei valori che proprio il canone ha l’ambizione di rappresentare. La lettura calviniana, però, mi fa venire in mente che forse oggi il canone sia un fattore assolutamente superato. Semplicemente perché mancano di autorità non soltanto i classici ma anche i “maestri” che proprio ai classici ci fanno regolarmente tornare. E questo perché alla letteratura non chiediamo più nulla se non un sano svago (il più possibile intelligente ma sempre assolutamente leggero). Sono passati 40 anni da quando Calvino ha scritto il testo che compare come paragrafo introduttivo al libro. Era il 1981 e in difesa dei classici lo scrittore allora combatteva la sua personale battaglia contro le sovrastrutture ideologiche fino al punto di dire: “La scuola e l’università dovrebbero servire  a far capire che nessun libro che parla di un libro dice di più del libro in questione”.  Se fosse oggi con noi, Calvino si renderebbe conto di essere uscito vincitore da quella battaglia. Peccato che senza contesti, senza “cultura”, senza inquadramento storico ogni opera galleggi da sola nel mare della nostra ignoranza senza vele e senza timone. Ed è proprio questa condizione di un campo senza coordinate quello che ci fa vivere l’epoca digitale dove tutte le informazioni sono presenti contemporaneamente sul nostro cellulare senza filtri e senza gerarchie.

Serve davvero, allora, avvertire le nuove generazioni di lettori che Senofonte e Ovidio ci hanno lasciato opere imperdibili? Serve davvero indicare nell’Orlando furioso un poema che “si rifiuta di cominciare così come si rifiuta di finire”? E di certo non è molto opportuno ricordare che la dantesca  Francesca da Rimini è stato “il primo personaggio della letteratura mondiale che vede la sua vita cambiata dalla lettura dei romanzi” (ben prima di Emma Bovary, tra l’altro), visto che l’ultima conseguenza di quel gesto è stata la sua uccisione. Personalmente ne dubito. Poi però arriva lo stesso Calvino a illuminarmi. A spingermi a continuare ad andare avanti nel godimento dei libri (e soprattutto dei classici). Al suo sguardo analitico e profondo bastano pochi attimi per inquadrare la quintessenza di un capolavoro e di un “maestro”. E quei tocchi gentili e illuminanti continuano a essere ottimo carburante per la stufa della nostra passione letteraria. Come quando ci avverte che la grandezza di Carlo Emilio Gadda risiede soprattutto “nello squarciare la banalità dell’aneddoto con lampi d’un inferno che è nello stesso tempo psicologico, esistenziale, etico e storico”. Come quando ci spiega mette di fronte il genio di Ernest Hemingway che, secondo Calvino, aveva “capito qualcosa di come si sta al mondo a occhi aperti e asciutti, senza illusioni né misticismo, come si sta soli senza angosce e come si sta in compagnia meglio che soli”. L’autore di Addio alle armi – per Calvino – ha elaborato “uno stile che esprime compiutamente la sua concezione della vita, e che se talvolta ne accusa i limiti e i vizi, può nelle sue riuscite migliori essere considerato il linguaggio più secco e immediato il più privo di sbavature e tumidezze e il più limpidamente realistico della prosa moderna”.

E poi ci sono i complimenti a Eugenio Montale che suonano particolarmente adatti a denunciare i limiti e la povertà culturale del mondo che abitiamo: “In un’epoca di parole generiche e astratte, parole buone per tutti gli usi, parole che servono a non pensare e a non dire, una peste del linguaggio che dilaga dal pubblico al privato, Montale è stato il poeta dell’esattezza, della scelta lessicale motivata, della sicurezza terminologica intesa a catturare l’unicità dell’esperienza”. Se c’è ancora qualche lettore che voglia misurarsi con la lingua montaliana allora non tutto è perduto.

 

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