Così le confessioni di un grafomane diventano un romanzo imperdibile
Avete presente quella sensazione di frustrazione che ci assale ogni qual volta ci mettiamo a ripensare a un torto subito e a come lì, sul momento, abbiamo reagito? Più passa il tempo e più sviluppiamo dentro di noi risposte e reazioni sempre più efficaci. Di certo migliori di quella che lì, sul momento, siamo stati in grado – “a caldo” – di esprimere. Perché quello che ci frega è l’impulsività, l’idea di risolvere tutto con la passione del sangue e la forza dell’indignazione. E questa cosa mi fa pensare che l’umanità si divida in due “sottospecie”: la prima è quella delle persone sempre razionali, sempre misurate, sempre composte, di poche parole. Quelle che aprono una leggera fessura tra le palpebre per fare del loro sguardo un enigma insolubile. Magari accompagnato da un vago sorriso di compiaciuta superiorità e di vaga compassione. E che ti lasciano lì a vomitargli davanti il tuo mondo interiore senza filtri, senza raziocinio, senza misura. E alla fine che cosa rimarrà di questa penosa scenetta che puntualmente si ripete nella nostra vita? Alla fine, si conteranno un vincitore e un vinto: dove chi vince è colui che parla di meno e sorride di più.
Ho sempre fatto parte della seconda categoria. Sì, insomma, sono un perdente, una vittima dell’impulsività e del cordoglio (cuore in mano). Ed ho appena scoperto di avere un compagno di disavventure in Moses E. Herzog. Suo padre è un grande scrittore. Si chiama Saul Bellow ed è riconosciuto come uno dei principali protagonisti della letteratura americana del Novecento. Ho appena finito di leggere questo romanzo (Mondadori, traduzione di Letizia Ciotti Miller) pubblicato nel 1964. Un vero capolavoro che prende il largo nell’oceano della letteratura sfruttando la scia di capolavori come L’uomo senza qualità e Ulisse.
Herzog è deluso dalla vita. Al punto da mettersi in discussione su tutto. Anche sulle piccole cose. E si affanna a mettere, altresì, in discussione chiunque sia comparso come temporaneo comprimario sul suo palcoscenico. E così si mette a scrivere lettere. Lettere di protesta, lettere di risposta, lettere di commento. Indirizzate alle mogli (la prima e la seconda), alle amanti, ai colleghi di università, ai grandi pensatori, ai sindaci e ai politici, fino a scendere, giù giù, nella scala sociale, fino ai responsabili della metropolitana o del servizio postale. Lo seguiamo in un brevissimo tratto di strada. Sufficiente, però, per apprezzarne la sua crescente consapevolezza sul suo ruolo nel mondo e sul modo per evitare di cadere nella follia.
L’espediente grafico è l’uso del corsivo. La sua “scrittura” si realizza in quelle lunghe digressioni in quel carattere tipografico. Missive moraleggianti e impietose. Alternate al tondo del suo mondo interiore e del presente narrativo. E seguendo, pagina dopo pagina, questo lungo romanzo, il corsivo lascia spazio alla crescente consapevolezza del tondo. È anche il diario di una resa. Una resa alla propria personalità, al proprio mondo interiore. E, dopo 400 pagine di duelli all’ultima iperbole con pensatori del calibro di Freud, Schopenhauer e Nietszche, Herzog spiega: “La coscienza, se non comprende chiaramente perché si vive e perché si muore, non può fare altro che sfottere e ridicolizzare sé stessa…. Come faccio io scrivendo lettere impertinenti”. E a mano a mano che questa “maturazione” si compie, Herzog prende consapevolezza del suo ruolo. Le confessioni dell’accademico ebreo di origine russa, cresciuto in Canada e figlio di un trafficante di alcolici nell’epoca del proibizionismo (in questi semplici dati, tra l’altro, la biografia dell’autore e del personaggio coincidono), si esauriscono lentamente. E le paranoie sulla moglie fedifraga, sui colleghi invidiosi, sui fratelli e sugli amici…. lasciano il posto a un’arrendevole comunione con la realtà. E le confessioni di Herzog divengono Les confessions di Rousseau: “Je sens mon coeur et je connais les homme”, ricorda Herzog. Ma avrebbe potuto aggiungere anche il resto della citazione: “Je ne sui fait comme aucun de ceux que j’ai vus; j’ose croire n’être fait comme aucun de ceux qui existent. Si je ne vaux pas mieux, au moin je suis autre”.
Herzog ha smesso di ripensare alle battute impulsive e agli sfoghi di cuore. Continuerà a guardare i suoi interlocutori con occhi sgranati e mano sul petto, ma senza la frustrazione di sentirsi appartenere alla categoria delle persone istintive (e ciarliere).
Almeno per me, un grande maestro di vita.