Succede. E anche spesso. Capita di frequente di interrogarsi sul testo che si ha di fronte? Sarà letteratura? Ci si chiede, a metà strada tra l’essere smarriti e l’essere interdetti. Perché spesso, e sempre più frequentemente, ci si imbatte in romanzi che non danno emozioni, non coinvolgono e non fanno riflettere. E soprattutto non stimolano pietas o altri sentimenti profondi. Questo accade perché lo scrittore (meglio dire lo scrivente) non si mette in gioco e non va al profondo della propria interiorità per far emergere suggestioni e idee di peso.

Come dicevo, succede spesso. Ma non sempre. E nelle riletture (ovviamente) succede raramente. Un paio di settimane fa ho ripreso in mano Ho servito il re d’Inghilterra di Bohumil Hrabal (Edizioni e/o nella traduzione di Giuseppe Dierna). Quando ho chiuso il libro mi è venuto spontaneo pensare che no, questo libro non appartiene alla maggioritaria categoria dei titoli inutili.

Se non è ancora un classico, il romanzo di Hrabal ha comunque tutti i requisiti per diventarlo. L’autore boemo l’ha pubblicato nel 1982). Il libro racconta le avventure di un piccolo cameriere messo a contatto con la Storia. Il piccolo (per età e per statura) apprendista ci racconta la sua vita meravigliosa (almeno ai suoi occhi). Perché stupore e meraviglia sono gli unici occhi attraverso i quali è in grado di osservare la realtà che lo circonda.

La storia della letteratura è piena di bambini/narratori che regalano immaginifici racconti pieni di figure al limite del grottesco. Figure e personaggi capaci però di raccontare una verità ben più profonda di qualsiasi resoconto un adulto (magari smaliziato e corrotto dalla vita e dall’esperienza) possa fare. Il personaggio proposto da Hrabal ha il candore sufficiente per offrirci i colori più vividi della realtà. Ama i soldi, ama il lavoro, ama le donne e soprattutto ama la vita (e ama raccontarla). La Storia, soprattutto quella che devasta un Paese bellissimo come quello dell’autore tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, impone al protagonista un lento, progressivo ma ineluttabile slittamento verso l’alienazione. La Boemia passa dai tempi allegri dell’Austria felix alle cupe turbolenze del nazismo per poi approdare alle surreali atmosfere del comunismo più ottuso. E questo progressivo imbarbarimento e questa progressiva disumanizzazione porta anche il nostro protagonista a modificare lentamente e inesorabilmente il suo rapporto con lo mondo esterno.

Alla fine, ci troviamo di fronte il diario di un alienato, laddove all’inizio era un brillante e solare racconto di un apprendista innamorato della vita e delle sue infinite possibilità. E così si passa quasi senza soluzione di continuità dal candore del fanciullo alla visionarietà di un alienato che ormai parla soltanto con sé stesso e con i suoi fedeli compagni (nell’ultimo capitolo) cioè un cane coraggioso e fedele e un placido cavallo.

Insieme con quell’altro titolo (davvero suggestivo: Una solitudine troppo rumorosa), Hrabal ci consegna due capolavori. Che possono stare al passo con i più grandi (da Joyce a Cèline). E lo fa con testi che appassionano il lettore con le immagini davvero suggestive, facendo passare tra le righe una feroce condanna del Nazismo e del Comunismo (colpevoli, prima di ogni altro orribile crimine, di aver disumanizzato il mondo). Una condanna comminata col sorriso dell’umorismo grottesco (basti pensare al carcere per milionari nella Praga sovietizzata) in pagine di rara bellezza che non potranno mai essere cancellata dalla memoria dei lettori.

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