Il mondo della letteratura è un vasto caleidoscopio dove tutto torna e tutto è collegato. Quindi i rimandi, gli accenni, le evocazioni fatte da riconosciuti maestri diventano immediatamente degli input da seguire. Quasi degli ordini cui ubbidire senza alcuna esitazione. E’ così che ho scoperto, ormai è gran tempo, il fascino dei romanzi di Ivy Compton-Burnett (1884-1969). Ne parlava spesso Alberto Arbasino. E, conoscendo la sua severità e il suo rigore, ma soprattutto conoscendo la sua perfida ironia sulla gran parte della produzione letteraria a lui coeva, quei piccoli (ma grandissimi a loro modo) elogi per la “signorina Ivy” divennero immediatamente una ghiotta esca.

Complice l’ennesimo trasloco, ho messo le mani su uno dei suoi romanzi migliori: Il passato e il presente. Mi sono altresì accorto di possedere la prima edizione italiana (del 1980 per Einaudi nella traduzione di Bruno Fonzi e Camillo Pennati) di questo romanzo, uscito in Inghilterra nel 1953. Non merito mio, ovviamente. E ancora mi chiedo come sia arrivato a casa dei miei genitori.

La buona sorte, però, mi ha permesso di leggerlo (chissà quando) e di rileggerlo (ora). Confermando tutto il bene che il già citato Arbasino ha detto nei confronti di questa scrittrice britannica, appassionata della società vittoriana e della tragedia greca.  Due passioni, queste, che la “signorina Ivy” ha unito a una terza: la scrittura. La sua è del tutto originale: pochissime descrizioni, ambientazioni puntuali ma ridotte all’osso e dialoghi serrati. I temi dei suoi venti romanzi ruotano attorno a  motivi archetipici: i legami familiari e le convenzioni sociali. Il romanzo di cui vi parlo ruota attorno alla figura di Cassius Clare, signorotto della provincia alle prese con il ritorno della prima moglie dalla quale ha avuto due figli che vivono insieme con il padre. Avvenimento che sconvolge l’apparente tranquillità della vita domestica popolata non soltanto di maggiordomi e cameriere (come un perfetto romanzo vittoriano) ma anche di una popolosa prole (altre tre figli), una seconda moglie (chiamata mater dai figliastri e mamma dai figli) e un nonno (il settuagenario Mr Clare). L’arrivo di Catherine sconvolgerà la pace apparente della casa. Un’epifania di questo imminente travaglio domestico è dato dalla scena iniziale in cui i più piccoli di casa mettono in piedi il funerale di un cucciolo di talpa trovato senza vita in giardino.

Dal funerale prende avvio una storia dove l’esile plot si può ridurre a una visita inaspettata (quella di Catherine che ritorna per vedere i suoi figli e reclamare il suo diritto materno), un incidente farmaceutico (l’errore probabilmente voluto nel dosare un tranquillante con il quale il padrone di casa mette in scena un finto suicidio) e la morte del padrone di casa per un attacco di cuore (morte che si sarebbe potuta evitare se le altre persone presenti avessero dubitato che si potesse trattare ancora di un finto suicidio chiamando tempestivamente il medico).

Ivy Compton-Burnett ci racconta qui la vita di una famiglia: le angosce dei figli, le frustrazioni di un padre poco amato, e gli incubi di una donna che vede il suo ruolo e il suo posto messo a rischio dal ritorno di una “rivale”. Sfrutta come è solita fare la sua abilità nei dialoghi. Su di essi si regge l’impianto narrativo. Attraverso di essi emergono i caratteri e soprattutto le caratteristiche di questo organismo sociale (la famiglia borghese vittoriana). “La sua è narrativa sempre costruita su relazioni, composte a loro volta da scambi umani dominati da forti moventi egoistici – ha scritto Lisa Ginzburg in un articolo sul Foglio di qualche anno fa -. Ognuno cerca di attrarre a sé il maggior numero di convenienze, vantaggi, privilegi, e lo fa con la sola arma della sagacia del proprio eloquio. Storie scolpite attraverso dialoghi. Un talento unico nell’usare la dialettica delle interazioni: assemblaggio magnifico di conversazioni che fungono da descrizioni, di parole rivolte ad altri e con altri scambiate configurando, nel loro stesso venir pronunciate, mondi interi”. Ho riportato l’intero passaggio perché non si può dire dei dialoghi della Compton-Burnett con parole altrettanto semplici e chiare. Forse aggiungerei soltanto un difetto di questi dialoghi: non sono mimetici, quindi le persone diventano maschere di una sola grande intelligenza: quella dell’autrice. E comunque è da qui che prendono le mosse drammaturghi di vaglia come Eugene O’ Neill e Noel Coward. L’ultima parola la lascerei ad Arbasino che della “signorina Ivy” è stato il primo e più appassionato cultore italiano: “In questi romanzi la dimensione borghese si sposa con il grottesco. Si tratta di storie che devono molto al teatro classico o shakespeariano per gli intrighi, i drammi segreti, l’imprevisto che irrompe e sconvolge l’ordine costituito, proprio come nelle migliori tragedie, ma che hanno tuttavia la leggerezza e la leggiadria di commedie divertenti e briose dove i personaggi cinguettano in continuazione. A chi le chiedeva come mai continuasse ad ambientare le sue trame sempre agli inizi del secolo, Ivy Compton-Burnett rispondeva: La storia si ripete… E la vita familiare, nella sua essenza, non cambia mai”.

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