L’insegnante ideale, l’ideale maestro, lo tratteggia Julian Barnes nel suo ultimo romanzo Elizabeth Finch (Einaudi, traduzione di Susanna Basso). Non ideale in senso assoluto. Bensì per i nostri tempi incerti, resi ancor più ingarbugliati dal predominio delle fake news, dal potere totalitario dei social, e dalla perfida e sottile prepotenza del politicamente corretto. Barnes ce lo dice con chiarezza: abbiamo tutti bisogno di Elizabeth Finch. La protagonista del romanzo? Non proprio. Semmai l’ossessione mentale dell’autentico protagonista: Neil. Gli amici e i parenti (che comunque gli vogliono bene) lo definiscono “il re dei progetti incompiuti”. Ed è tipico di un’anima in pena, come il nostro Neil, cercare risposte nella cultura e nella formazione universitaria. Anche se si è già oltre la soglia degli anta con alle spalle matrimoni falliti, figli, e lavori precari. Ed è proprio in un corso universitario per adulti che Neil fa la conoscenza di Elizabeth Finch.

Neil rimarrà folgorato dalla titolare del corso di “Cultura e civiltà” perché tanto diversa dai suoi colleghi ma anche dal modello femminile dell’epoca. La vita di Neil cambia dal giorno che entra nella classe della Finch. E potrei dire che la stessa avrebbe cambiato anche la mia se avessi avuto la sorte di incontrarla. Sobria nell’abbigliamento, esatta nel dire, e cristallina nel pensiero, incallita fumatrice e insofferente di quello che oggi chiamiamo mainstream ma che un tempo definivamo più semplicemente “comune sentire”, la figura di Elizabeth Finch rimarrà scolpita nel nostro immaginario. Una donna autenticamente forte e indipendente che nel suo diario scrive: “Essere stoici nell’era del vittimismo significa passare per scostanti o, peggio, per insensibili”. Una insegnante capace di ammonire i suoi stessi studenti nel momento in cui cedono a facili congetture: “Non fate l’errore di pensare che mi senta sola. Sono un tipo solitario, che è tutt’altra faccenda. Essere soli è una forza; sentirsi soli una debolezza. Del resto, la cura per chi si sente solo è la solitudine, come una volta saggiamente disse MM”. Quelle iniziali corrispondono a Montaigne. Uno dei numi tutelari di questo romanzo insieme con Voltaire e con Giuliano l’Apostata, l’ultimo imperatore pagano. Ed è proprio quest’ultimo la chiave scelta da Julian (Giuliano) Barnes per gettare un raggio di luce sul mondo interiore di Elizabeth Finch. Flavio Claudio Giuliano è  l’ultimo imperatore dichiaratamente pagano e a lui si deve anche l’estremo (ma fallimentare) tentativo di restaurare il politeismo della religione romana classica. Studiando le carte lasciategli in eredità dalla Finch, Neil scopre che questo personaggio storico era la vera ossessione della sua professoressa. E proprio ricostruendo la vita e il pensiero dell’imperatore Neil riesce a dare un contorno più preciso al pensiero della sua insegnante, tanto low profile e ricca di understatement da mimetizzarsi nelle considerazioni del filosofo-imperatore. È nella critica dell’Apostata al Cristianesimo che si colgono esempi di formidabile libertà e autonomia di pensiero. Come quel primo comandamento (Non avrai altro Dio fuori di me), facilmente smontabile da una riflessione razionale: “Come potrebbe una qualsiasi persona ragionevole venerare una divinità punitiva, ossessionata dal bisogno di controllo? Non avrai altri Dei all’infuori di me è una gran bestemmia verso Dio”. La stessa Finch trova in Voltaire un compagno di strada autorevole. “Per Voltaire – scrive Barnes – tolleranza e libertà di culto furono due elementi essenziali per la nascita dell’Illuminismo. Pertanto, i due eventi devastanti del primo cristianesimo furono l’imposizione del monoteismo e la fusione di Stato e Chiesa”. Eventi cui proprio l’Apostata ha tentato di porre senza successo un argine.

Dell’ultimo imperatore pagano ci restano molte testimonianze e tanti ritratti. Di Elizabeth Finch soltanto quello di Barnes. Ma è sufficiente per farci rimpiangere di non essere stati allievi del suo corso di “Cultura e civiltà”

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