Trovo curioso il fatto che il primo romanzo scritto da Primo Levi nelle vesti di “professionista” della scrittura sia La chiave a stella. Pubblicato nel 1978, l’autore ha iniziato a scriverlo quando è andato in pensione. Per tutta la sua vita lavorativa, Levi aveva volto la professione di chimico. Poi, da pensionato, si è dedicato anima e corpo alla scrittura ed il suo primo lavoro è un romanzo dedicato al lavoro tecnico. La chiave a stella (Einaudi) non è soltanto uno dei più fulgidi esempi di quella letteratura industriale nata ai primi anni Sessanta che ha avuto tra i suoi più apprezzati rappresentanti Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Lucio Mastronardi, Luciano Bianciardi e Nanni Balestrini. Si tratta infatti del primo romanzo di invenzione di Levi, dedicato alle “avventure” professionali di un operaio specializzato. Si chiama Tino Faussone. Dopo una prima esperienza alla catena di montaggio della Lancia, Faussone lascia la fabbrica. Preferisce un lavoro che oggi noi chiameremmo da “freelance” e gira il mondo a montare gru, ponti sospesi e strutture metalliche per la realizzazione di impianti petroliferi. Siamo alla fine degli anni Settanta. Il lavoro meccanico è nella sua ultima fase. Levi lo intuisce e celebra il lavoro di Fassone come un inno all’operosità e alla libertà. “Nell’ascoltare Faussone – racconta il narratore che condivide con l’autore il lavoro da chimico, che incontra durante uno dei suoi viaggi di lavoro il connazionale e conterraneo (piemontese) – si andava coagulando dentro di me un abbozzo di ipotesi, che sottopongo qui al lettore: il termine libertà ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”. Tino Faussone, in fondo, è l’esatto opposto di Albino Saluggia (il celeberrimo protagonista del romanzo Memoriale di Volponi). Non viene schiacciato dal lavoro. Non subisce l’alienazione dei colleghi della Lancia. Lui ha scelto di lavorare “in proprio”, di assumersi le sue responsabilità, ma soprattutto di godere di un lavoro che non fa grasso il padrone (come si urlava proprio in quegli anni ciecamente ideologici) ma soddisfa l’uomo faber e la sua intelligenza. L’unico paragone che posso azzardare è quello con un libro sempre di quegli anni ma frutto di una cultura completamente diversa: Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig. Libro diversissimo, lo ammetto. Però quando il protagonista smonta e rimonta la sua moto mi sembra preso da quella stessa sapienza e saggezza che solo chi manipola con le mani può riuscire ad ottenere.

Faussone mostra al chimico i suoi strumenti di lavoro. Li descrive e per molti ne dice anche il corrispettivo in dialetto piemontese. Racconta i momenti più critici del suo lavoro e il rapporto con le maestranze locali. Levi si coccola la sua “creatura” cui restituire umanità, candore ma anche senso di responsabilità. Come quanto racconta perché è sempre stato attratto dai cantieri dai quali nascono i ponti. “Ho sempre pensato che i ponti è il più bel lavoro che sia: perché si è sicuri che non ne viene del male a nessuno, anzi del bene, perché sui ponti passano le strade e senza lee strade saremmo ancora come i selvaggi”.

Oggi questo romanzo è ancora una lettura godibilissima. Ci vuole infatti la penna di un vero scrittore per consentire al lettore comune di entrare dentro un contesto così specifico e così lontano nel tempo. Non sono sicuro che anche i giovani lettori riusciranno a farsi sedurre da questo meccanico filosofo che propone un meraviglioso confronto tra il suo lavoro e quello dello scrittore.

Il Faussone rimprovera al chimico/scrittore che il suo lavoro è sicuramente più comodo e sicuro, svolto in un ambiente caldo e protetto. E soprattutto rintuzza le obiezioni dello scrittore (“abbiamo anche noi le nostre giornate storte”) usando soltanto il buon senso di chi svolge un lavoro manuale. Si può scrivere qualsiasi enormità, spiega Faussone, “ma la scrittura non fa come il legname delle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per venire un crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentazione ei segnali d’allarme sono rudimentali: non c’è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando orami è troppo tardi, e allora si mette male: anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai scuse né pretesti, ne rispondi appieno”. E a proposito di queste parole io considererei indispensabile questo libro come “manuale” nelle scuole di scrittura.

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