È confortante, ma allo stesso tempo avvilente, prendere in mano un “classico” del Novecento italiano. È confortante perché – se di classico stiamo parlando – avrà una scrittura che colpisce, una voce ben distinta e soprattutto qualcosa di profondo da dire. Così profondo che la sua “attualità” si rinnovella ad ogni lettura. Leggere un simile classico, però, può anche essere sconfortante perché alla fine della rilettura si è tentati di credere che simili livelli non saranno più raggiunti. Qualcuno può dire che sono un passatista. Può essere. In molti casi quest’accusa sarà senz’altro fondata. Non però quando paragono gli esangui esperimenti letterari di oggi con il funambolismo di un “cavallo di razza” come Antonio Delfini. Durante queste vacanze di Natale, infatti, mi sono deliziato con  la rilettura del Ricordo della Basca (ho una vecchia edizione Garzanti del 1992). Ed è stata appunto una lettura confortante e sconfortante a un tempo. Com’è noto, si tratta del più celebre testo di questo gigantesco “minore” del Novecento.  Un testo che raccoglie alcuni racconti scritti negli anni Trenta dall’autore modenese. È il capolavoro di un provinciale che aveva a cuore non soltanto la parola letteraria ma anche la vocazione alla vita. E sapeva coniugare l’intelligenza con l’estro e non abbassava mai la guardia, senza cercare facili soluzioni o di assecondare la pigrizia dei lettori. Ed è sorprendente il risultato di questi racconti che non soltanto ci descrivono i vitelloni felliniani, prima ancora che Fellini raggiunga l’età della ragione, ma ci spiegano il come e il perché della provincia italiana senza indulgenza e senza sconti ma anche con una partecipazione affettiva davvero sincera. Il colore dei paesaggi ricorda i racconti di Gogol mentre le voci dei personaggi e le loro ubbie fanno pensare a due “allievi” come Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni.

Quando, però, negli anni Cinquanta, lo stesso Delfini rimette mano ai racconti e li impreziosisce di una singolare introduzione allora le cose si fanno ancor più interessanti. Questa lunga introduzione, infatti, è uno dei primi (e a mio modesto parere ancora insuperati) esempi di auto-fiction. Ben prima – tra l’altro – che questa orribile definizione entrasse nel lessico comune dei lettori (non comuni e quindi forti). È un’introduzione che si fa racconto. Che mette il personaggio Antonio Delfini al centro della scena. Una scena, per altro disegnata sfruttando i paesaggi e le storie dei singoli racconti.

Si apre, quindi, uno straordinario gioco di specchi che avrebbe fatto la felicità di Jorge Luis Borges. Dove i rimandi meta-narrativi diventano la ragione stessa del suo divertimento. Facendo in questo modo dell’uomo Delfini, dello scrittore Delfini e del personaggio Delfini tre bersagli da colpire a ripetizione passando dall’uno all’altro senza pietà alcuna. Ditemi voi se oggi esistono scrittori altrettanto audaci. L’autofiction di oggi arriva al massimo a fare della compiacente autoironia (come il caso di Francesco Piccolo e dei suoi Momenti di trascurabile felicità). Di certo non mette in discussione canoni e stili di vita, come faceva l’autore modenese. “A ripensarci dico che se avessi allora tenuto un journal  non avrei potuto avere il tempo di vivere, né l’estro di creare, quei veri racconti, vivendo i quali non ho avuto il tempo di scriverli”. Questa folgorante citazione si trova a pagina 11 del libro. Facile intuire che – passata la pagina – si vada avanti con animo sereno sapendo di aver tra le mani un capolavoro ancora originalissimo che di sicuro non ci deluderà.

 

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