L’eroe libertino della Primavera di Praga
Il classico appartiene alla categoria dell’eterno ritorno. Si nutre di miti, di tradizioni, di canoni. Per poter illuminare la strada anche ai più distratti viandanti, pardon: lettori. Un lettore può però non essere distratto ma vorace e quindi – col tempo – ha bisogno incontrare di nuovo quel classico per riprendere quel mito, quell’allegoria, quell’ammonimento, quella universale descrizione e sintesi che possono aiutarlo a tenere ben alta la luce davanti ai suoi occhi. Ecco perché, di tanto in tanto, torno su classici già letti. O a quelli che ho finito per chiamare tali grazie a ripetute letture. Come L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera (riletto nella preziosa traduzione di Giuseppe Dierna per Adelphi). Avevo istintivamente bisogno di leggerezza e quindi mi sono rivolto a un romanzo che vagamente ricordavo come una storia d’amore, anzi due storie d’amore collocate nel quadro del tramonto del dominio comunista sulla Cecoslovacchia.
Quando Kundera scrive il romanzo è già da tempo un deraciné. Vive in Francia da esule politico. E il romanzo che si impegna a scrivere all’inizio degli anni Ottanta (uscirà proprio a Parigi nel 1984) diventerà un bestseller e sarà accolto in Francia e nel resto d’Europa con unanime apprezzamento. Dal nuovo punto di osservazione lo scrittore/esule è capace di vedere la realtà politica del Paese d’origine con estrema lucidità e sfrutta anche la lezione del conte philosophique per confezionare un romanzo che costituisce quasi un unicum nella storia della letteratura contemporanea.
Due storie d’amore intrecciate (Tomas e Teresa, Franz e Sabine) nascono e si consumano nella cornice della drammatica stagione seguita alla primavera di Praga. Kundera individua in loro i due poli della leggerezza e pesantezza. Teresa e Franz vivono la gelosia come un fardello morale mentre Sabine e Tomas sembrano appartenere al polo opposto dove le scelte di vita non sono cariche di conseguenze etiche. Dico sembrano perché il finale del romanzo – che ovviamente non svelo – ci restituisce una dualità meno accentuata.
Se si trattasse soltanto di raccontare la vita di questi quattro personaggi basterebbe l’eredità voltairiana per consentire la creazione di un perfetto meccanismo narrativo, regalando ai lettori un romanzo d’amore come soltanto Roland Barthes avrebbe potuto scrivere in pieno Novecento. E invece Kundera ci parla dell’amore come di un campo in cui le scelte individuali portano sì delle conseguenze nette nella vita delle persone ma che conducono anche a scelte “politiche” perché irrompono nella Storia e in qualche modo nel condizionano il percorso. Kundera, insomma, si lancia in un azzardo: raccontare una storia d’amore (anzi due) per denunciare i mali del comunismo.
Tomas torna a Praga per seguire Teresa e accetta anche di perdere il lavoro di chirurgo per adattarsi a mansioni più umili (lavavetri e autista di camion) pur di non rinunciare alla donna della sua vita. E così Franz e il suo sogno di palingenesi che si infrange nelle infedeltà di Sabine. Le trame delle loro vite sono condizionate e sconvolte da delazioni e denunce, da minacce e ricatti ed è difficile per loro rimanere fedeli all’ideale (non solo politico ma anche individuale).
Ed è Kundera, per voce del narratore, che ci squaderna la più semplice (e più incisiva) descrizione di cosa è stato quell’oscuro periodo. “Chi pensa che i regimi comunisti dell’Europa centrale siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità fondamentale: i regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti di aver scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi difesero con coraggio quella strada, giustiziando per questo molte persone. In seguito, fu chiaro che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano quindi degli assassini. Allora tutti cominciarono a inveire contro i comunisti: siete responsabili delle sventure del paese, della perdita della sua indipendenza, siete degli assassinii giudiziari!”
Tomas senza più bisturi in mano si chiede se siano tutti colpevoli. Se tra quelli che la Storia condannerà ci siano anche coloro che agivano in buona fede o in perfetta ignoranza delle conseguenze. E rispolvera il mito di Edipo che si autopunisce quando si riconosce nell’autore dell’omicidio del padre e che si accanisce su sé stesso per la scoperta dell’involontario incesto.
Scomodare Nietzsche, Freud, Voltaire e infine Sofocle serve a Kundera per confezionare un racconto imprescindibile. Una storia che denuncia gli orrori del comunismo con la sottile ma non per questo meno efficace arma dell’ironia e che veste la denuncia con gli abiti di una storia d’amore e di sesso. Sì, anche di sesso. Perché il libertinaggio di Tomas diventa anch’esso un urlo di protesta, un inno alla libertà.
E alla fine, ciò che ci rimane non è soltanto la storia del libertino, privato della sua professione e “missione” sociale, ma anche il parallelo dello stesso libertinaggio con il lavoro dello scrittore. “I personaggi nascono da una frase, da una metafora, contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale che l’autore pensa nessuno abbia mai scoperto”. E lo stesso Kundera esce allo scoperto per confessare in maniera inequivocabile: “I personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono realizzate. Per questo voglio bene a tutti allo stesso modo e tutti allo stesso modo mi spaventano: ciascuno di loro ha superato un confine che io ho solo aggirato”. E infatti Kundera finisce a Parigi, mentre il suo Tomas si fa umiliare dallo Stato comunista e, per amore, accetta di farsi esiliare in campagna a trasportare derrate e braccianti. Chissà che un giorno non si possa fare il nome di Tomas come oggi si fa quello di Edipo. Un eroe altrettanto tragico, un mito altrettanto eterno.
