Il 25 Settembre l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy è stato condannato per associazione a delinquere in relazione ai presunti finanziamenti libici della campagna elettorale del 2007.

Il pensiero corre al 19 Marzo 2011, quando gli aerei di Sarkozy furono i primi a bombardare la Libia. All’epoca, nella mia rubrica sul blog “the Front Page” di Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi, mi ero schierato contro l’intervento NATO, e qualcuno non esitò a bollarmi come “gheddafiano”.

Fino al 2011 la Libia era un alleato strategico dell’Italia, oltre che un filtro efficace contro l’immigrazione clandestina. Oggi, in quell’ex Paese, troviamo Erdogan in Tripolitania e… Putin in Cirenaica. Non è forse legittimo domandarsi se i paladini della democrazia esportata a suon di bombe nel 2011 appaiano, con lo sguardo di oggi, inconsapevoli proto-putiniani?

Qui di seguito ripropongo l’articolo che avevo scritto il 25 Febbraio 2011 su “the Front Page”.

 

 

Quando vivevo a New York lessi un articolo che spiegava in una riga la differenza tra un film americano e uno europeo. Se un aereo deve esplodere, nel film americano si disintegra in una palla di fuoco. Nell’europeo, invece, vediamo un campo lungo dell’aereo, il volto atterrito di un passeggero dietro l’oblò, tipo “Urlo” di Munch, e infine lo schermo nero.

Ecco. Io sono scappato da Tripoli con il primo volo della Farnesina il 22 Febbraio e ora raccolgo i miei pensieri di quei giorni drammatici, ma avverto il lettore che non ho visto sangue né incidenti. Posso raccontare la mia esperienza solo con una zoomata molto europea e il grido di Munch.

Lavoro per una ditta di costruzioni italiana in joint venture con una libica a una quarantina di km da Tripoli. Noi chiamiamo la zona “deserto”, ma i locali ridono, perché per loro sono terreni agricoli. Eppure tutt’intorno al campo ci sono dune e cammelli magri che brucano cespugli rinsecchiti e spinosi: dune e cammelli uguale deserto, punto.

Il nostro progetto prevede la costruzione di cinquemila appartamenti, e poi moschee, ospedali, scuole. Praticamente una città nei sobborghi di Tripoli. Siamo ancora nella fase preliminare e per ora abbiamo solo costruito il “pioneer camp”, una decina di baracche più cucina e mensa per alloggiare sei italiani, trenta lavoratori dal Bangladesh, due cuochi e due autisti.

Fino a Giovedì 17 Febbraio leggevo sui giornali dei moti scoppiati a Bengasi, ma a Tripoli la vita scorreva tranquilla, nessun segnale anticipatore di quello che sarebbe successo nelle ore successive. La gente di Tripoli è benestante. La sola povertà estrema è quella degli immigrati di altri paesi africani (Nigeria, Ciad, Sudan) che si raccolgono al mattino in certe aree della città, ognuno con il suo attrezzo in primo piano, nella speranza di essere scelti da qualche padroncino, pagati una media di 6 dinari (4 euro) al giorno.

Tripoli è una città in fermento. Negli ultimi dieci anni Gheddafi si è rifatto una verginità: non è più il mandante dell’omicidio del presidente egiziano Sadat, non è più lo sponsor della bomba sul volo Pan Am abbattuto a Lockerbie nel 1988, ma un Barbapapà, padre padrone, eccentrico quanto si vuole, ma in fin dei conti con la testa sul collo e, anzi, quasi illuminato.

Un paio di mesi fa ero in macchina. Dall’autoradio usciva una voce cavernosa e lenta, lunghe pause carismatiche. Era Gheddafi. Alzai il volume per entrare in atmosfera e chiesi all’autista di tradurre. Shaher parla un inglese molto scarno, ma ha il dono della sintesi e riassunse così: «Gheddafi speak petrol bad for people and tree and water and animal».

Lo guardai interrogativo. Il petrolio è la maggior ricchezza libica, è curioso che Gheddafi ne parlasse male in un discorso radiofonico. Shaher rise: «Gheddafi no work. Gheddafi like speak!», nel senso che non ha niente da fare e allora gli piace filosofare. Lo stesso Shaher lo ascoltava come si ascolta un rispettabile pazzo, un oracolo fuori dal mondo ma degno di considerazione. Poi mi portò davanti al palazzo presidenziale per farmi ammirare la gigantografia di Berlusconi con Gheddafi, e indicandomi le guardie armate commentò: «These people no speak, only shoot. Have “testa chiusa con controbullone”. Too much crazy, teste del cazzo!».

Tripoli è un cantiere aperto. Le vecchie case mezze distrutte si confondono con le migliaia di case in costruzione. Il traffico caotico è reso impossibile dall’indisciplina patologica del tipico automobilista libico. Sull’autostrada a quattro corsie che da Tripoli va verso l’aeroporto, se perdi un’uscita non aspetti la prossima: fai inversione a U e ripercorri in contromano il tratto. Se entri nell’enorme rotonda del quartiere Serraj, e devi percorrere 270º verso la tua destinazione, è accettabile percorrere in contromano i 90º anziché perdere tempo nel giusto senso di marcia. Le automobili che fino a dieci anni fa erano vecchie scassatissime Peugeot, ora sono quasi tutte auto nuove della Hyundai e Mitsubishi che qui abbreviano in “Mitzi”. Tutti i distributori, a prescindere dalla compagnia, si chiamano “shell”, il lampione stradale “palo”, il motorino d’avviamento “matarino”, il pisello “semenza”, il portachiavi “medaglia” (ma questa è un’altra storia).

Giovedì 17 Febbraio il capo libico della joint venture è preoccupato per quello che sta succedendo a Bengasi, ma giustifica col fatto che in quella città sono “teste calde”, e poi aggiunge che a Tripoli la situazione è diversa. L’indomani, Venerdì 18 Febbraio, Gheddafi avrebbe posato la prima pietra per la costruzione del nuovo stadio, e tutti avrebbero dimenticato furori e malumori.

Venerdì sera, una baracca in un campo davanti al nostro va a fuoco. Doloso? Corto circuito? Non riusciamo a capire. Quando alle dieci di sera vado a dare un’occhiata, la prima cosa che mi salta agli occhi sono due fili mezzi marci che dal palo della luce alimentano la baracca in fiamme. Questo genere di allacci elettrici “fai da te” si vedono di frequente in Libia. L’incidente della baracca incendiata ci mette sul chivalà. Siamo ancora agli esordi del progetto, non abbiamo guardie e nemmeno recinzioni a delimitare il campo. Le nostre uniche “armi” sono 8 estintori che distribuisco ai sei italiani del campo, pronti a intervenire in caso di necessità. Tutto scorre così fino a Lunedì 21 Febbraio, quando la situazione precipita.

La mia cartina di tornasole è l’umore degli autisti libici. Fino a Domenica ci rassicuravano: «Bengasi people too much crazy. Tripoli no problem!». La mattina del 21 c’è un’aria diversa. Gli autisti sono nervosi. Il cuoco, che la sera prima voleva andare in città, aveva rinunciato perché gli autisti si erano rifiutati di accompagnarlo, allarmati dagli scontri violenti nelle strade. Decido di sequestrare la chiave del pulmino. Inizialmente Khaled, il braccio destro del capo libico, non me la vuole consegnare: «Fammi prendere prima il caffè» … «No, prima mi dai le chiavi e poi ti offro un caffè». Alla fine mi consegna le chiavi sorridendo, e stupito per la mia insistenza, ma un’ora dopo la situazione cambia bruscamente.

Si sparge la notizia che alcuni campi di lavoro nei dintorni di Tripoli sono stati assaltati, il personale malmenato, mezzi e attrezzatura saccheggiati. Ordine perentorio della parte libica della joint venture: ritirare tutti i mezzi, compreso il pulmino – unico veicolo capace di raccogliere tutti e sei noi italiani (più due a Tripoli) e portarci, se occorre, di filato in aeroporto.

Khaled, pressato dal suo capo, passa da vampate di collera a tentativi di prendermi con le buone. Gli operai Bangla nel frattempo sono ancora al lavoro. Joni, il mio preferito che ho eletto a magazziniere, alle 11 mi annuncia preoccupato che sono finiti i chiodi da 60 mm. «Joni, non ti preoccupare dei chiodi, abbiamo altri problemi».

Le linee telefoniche sono quasi completamente interrotte e non abbiamo telefoni satellitari. Insistendo, riusciamo infine a metterci in contatto con il project manager alloggiato a Tripoli e le notizie sono pessime: scontri in centro, palazzi governativi assaltati e saccheggiati. Ordine deciso: «Lasciate tutto e venite a Tripoli e poi filiamo dritti in aeroporto!».

Nel giro di mezz’ora il cantiere si ferma. Noi sei italiani raccogliamo in fretta e furia le nostre cose. L’aspetto più penoso è raccontare ai Bangla che dobbiamo scappare. Loro lavorano per noi, ma fanno riferimento a una ditta interinale che in teoria dovrebbe occuparsi di loro… molto in teoria. Joni mi guarda con occhi a palla e poi aggiunge ironico e rassegnato: «You go and when come back, see many dead banglas: this is Joni, ciao Joni; this is Mitro, ciao Mitro!». Consiglio a Joni di mettersi in contatto il prima possibile con il loro referente della ditta interinale e gli regalo tutti i dinari che ho (poca roba). Trovo dentro di me la risorsa per giustificare una tale vigliaccheria. In fin dei conti per loro non possiamo fare assolutamente niente (triste ma vero).

Per il primo quarto d’ora del tragitto dal campo alla villa di Tripoli e poi in aeroporto non vola una mosca. Siamo tutti contratti e timorosi di incappare in qualche manifestazione o posto di blocco. Dopo un po’ di nervi tesi, cala la delusione. Quello che ricorderò con nostalgia di quel Lunedì mattina è il senso di paura per il pericolo imminente ma invisibile, e lo spirito di corpo che si era creato tra noi, anche tra chi fino a poche ore prima non si sopportava. Improvvisamente tutti gli egoismi sembravano lontani. Alcuni di noi più incisivi e con il cervello a fuoco, alcuni in bambola e col cervello in pappa, ma tutti uniti. Ecco, quel senso di appartenenza evapora non appena ci accorgiamo che la strada per l’aeroporto è libera. Qui comincia una rivoluzione e noi ce la diamo a gambe. Immagino le decine di giornalisti che farebbero carte false per entrare in Libia, penso anche di fermarmi, tornare nel centro di Tripoli e improvvisarmi corrispondente di guerra, ma non ho le palle.

In aeroporto migliaia di persone fuori, migliaia di persone dentro. Non sto qui a raccontare le 22 ore successive passate nell’aeroporto ripieno di persone sdraiate per terra, i WC presi d’assalto, il bar senza più acqua né cibo. Ormai è notizia vecchia e comunque il livello di adrenalina era sotto la suola delle scarpe.

Lunedì 21 Febbraio mattina, voci frammentarie di un fantomatico bombardamento avvenuto a Tripoli la notte precedente. Tutte le notizie però arrivano dai telegiornali, ma nessuno dei nuovi entrati in aeroporto ha visto o sentito niente.

Infine i nostri nomi scanditi per il volo Alitalia organizzato dalla Farnesina. Sul volo verso Roma crollo ancora prima di partire e mi sveglio quando atterro. Grappoli di giornalisti e telecamere all’uscita del ‘ritiro bagagli’. «Da dove venite?» Le voci squillanti di due ragazzine arrivate da Cuba sovrastano il mio tono di voce. «Da Tripoli», sussurro, ma nessuno mi sente. Spengono il riflettore e si avventano sul prossimo gruppetto.

La sorpresa in Italia è constatare la grande emozione che la crisi libica ha suscitato. La mia famiglia aveva perso le mie tracce nelle ultime 24 ore e decine di vecchi e nuovi amici erano preoccupati della mia sorte. A differenza della guerra civile in Jugoslavia negli anni ’90, quando ignoravano cosa stesse accadendo in quei luoghi, tutte le persone con cui ho parlato nelle ultime ore hanno un’opinione molto forte sulla crisi libica.

Pur conoscendo quello che è avvenuto lo scorso Gennaio in Tunisia e Egitto, io non credo che il paragone regga. La Libia è una realtà molto diversa dai Paesi confinanti poveri e sovrappopolati. La Libia è ricca, la Tunisia no. Le società egiziana e tunisina sono molto più avanzate e consapevoli di quella libica. Fino ai primi anni 2000, agli occidentali che arrivavano in Libia venivano sequestrati quotidiani, periodici, giornaletti. Le figure considerate sconvenienti venivano annerite con un pennarello da solerti funzionari: un lavoro enorme e ai nostri occhi ridicolo. Giornali e riviste venivano restituiti dopo una settimana, mica buttati via. A un mio collega avevano restituito il Topolino con le scandalose gambe di Minnie rivestite dal pennarello nero. Negli ultimi anni le porte della Libia si sono spalancate. Tripoli è un cantiere aperto, ma la società è ancora molto arretrata e intontita. Il movimento di pancia che ha sconvolto Tunisia ed Egitto in Libia non ha senso: la gente sta bene, il pane costa pochi centesimi al chilo, il popolo ha la pancia piena e l’auto nuova. Gheddafi ha promesso nuovi alloggi per tutti. La guerra che si combatte in queste ore sembra più una resa dei conti tra tribù che non un movimento di popolo. E allora chi sono le persone che muoiono in piazza? Non sono in grado di rispondere.

Giovedì 24 Febbraio sono riuscito a mettermi in contatto con Shaher. A Tripoli la vita scorre tranquilla, mi ha detto. Il campo è in ordine, i Bangla stanno bene e aspettano il nostro ritorno.

«Shaher, ma sei matto? I giornali e le TV parlano di diecimila morti!»

«People TV too much crazy: testa chiusa con controbullone! Tripoli no problem. Gheddafi good. Bangla ok. When come back?»

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