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14Ott 25
Guerra e scissione del PIL
Una notte d’Aprile mi sono svegliato di soprassalto, ripensando a una frase di Geminello Alvi: «Il capitalismo (…) persegue il lusso del superfluo, ma richiede lo stato di guerra o stampa di banconote» (qui).
Negli undici anni tra il 2009 e il 2020, la banca centrale americana ha “stampato” seimila miliardi di dollari: un diluvio di denaro mai visto, se si considera che nei novantacinque anni precedenti (1913–2008) l’offerta di moneta era cresciuta gradualmente da cinque miliardi a poco meno di mille (qui).
Dopo anni di inutili tentativi di ridurre la liquidità in circolazione, l’inflazione post-pandemia ha rotto gli indugi, e nel 2022 le banche centrali hanno chiuso i rubinetti. A quel punto, il collegamento tra la stampa di banconote e lo stato di guerra è diventato automatico.
In un interessantissimo articolo su Krisis (qui), Andrea Zhok scrive: «Il nesso tra capitalismo e guerra non è accidentale, ma strutturale». Il professore ricorda che la ragione di vita del capitalismo è l’incremento del capitale a ogni ciclo produttivo: quando la crescita non è all’altezza delle aspettative, gli investitori si ritirano, i mercati si contraggono e il sistema entra in crisi.
Zhok osserva anche che «nel canone occidentale le guerre mondiali si presentano all’insegna di alcuni colpevoli ben definiti», e che alla più grande distruzione della storia seguì il più grande boom economico.
Negli ultimi trent’anni il capitalismo ha provato di tutto: globalizzazione, delocalizzazione, robot, denaro finto e razionalità contabile. Da un anno e mezzo, il tam-tam di guerra che risuona sui nostri media sembra ricordarci che abbiamo ormai raschiato il fondo del barile.
C’è però un “piccolo” particolare che dovrebbe farci riflettere: da ottant’anni a questa parte, nella sceneggiatura è comparso un Deus ex machina sotto forma di bomba atomica. Il capitalismo può ancora invocare la guerra come rimedio, ma oggi il rischio è che l’incendio annichilisca il pianeta anziché rigenerare la foresta.
Per trovare una via d’uscita che non sia il suicidio collettivo, la simbiosi tra capitalismo e guerra dovrebbe diventare tema di dibattito quotidiano sui media. E invece, l’articolo di Andrea Zhok resta un caso più unico che raro.
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