Da Capitol Hill all’orlo del precipizio nucleare
C’è un lungo fil rouge che collega i drammatici eventi di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, quando, nel giorno dell’insediamento del nuovo presidente statunitense Joe Biden, un gruppo di sostenitori del suo rivale Donald Trump fece irruzione nel palazzo del Campidoglio, un assalto costato il ferimento di centinaia di persone e la morte di quattro, (decessi seguiti nei mesi successivi dal suicidio di quattro poliziotti che avevano partecipato alla repressione) e la tragedia di questi giorni, con l’esplosione del primo conflitto armato in suolo europeo dalla fine degli anni Novanta del XX secolo. Il fil rouge è quello di una realtà geopolitica, l’Occidente a guida angloamericana, che, pur sentendosi (a ragione) militarmente dominante (nonostante l’umiliante episodio del ritiro delle truppe dall’Afghanistan lasciato nuovamente alla mercé del regime dei talebani dopo 20 anni di sostanziale occupazione), è afflitta al suo interno da una situazione di inarrestabile decadenza che non intende accettare, con una forbice tra ricchi e poveri in costante allargamento, un declino demografico drammatico, lacerata da una gestione della pandemia che ha mandato in archivio le prassi tipiche di una democrazia liberale per portare invece nella quotidianità dei cittadini di Nord America, Oceania ed Europa occidentale un lessico e un atteggiamento caratteristico di governi con un’impronta nettamente autoritaria. La protesta dei camionisti del “Freedom convoy” in Canada, che lo scorso 31 gennaio ha “invitato” il premier Justin Trudeau a fare le valigie e lasciare la capitale per una questione di sicurezza, è solo l’ultimo segnale di un disagio profondo nel rapporto tra le élite liberal-progressiste d’Occidente, lanciate verso le magnifiche sorti e progressive del “Grande reset” ecologico e sostenibile del sistema economico, e i loro amministrati.
D’altro canto, però, come su queste colonne era stato pronosticato, la fine dell’”anomalia” (relativa) costituita da Trump ha portato a un riavvicinamento politico tra le due sponde dell’Atlantico, tornate a parlare, con Biden, con voce corale, dimenticando così gli ammiccamenti del precedente quadriennio di personaggi come Merkel e Macron ai nemici della Casa Bianca o le allusioni a un futuribile “esercito europeo”, che, nei fatti, si è poi rivelato l’ennesima illusione, al netto della possibile costituzione di forze di rapid deployment comuni da impiegare in contesti minori.
L’Occidente, ben consapevole (così come la controparte) che, visti anche i presupposti di cui sopra, la sfida con le autocrazie eurasiatiche (Cina e Russia) per tentare di conservare l’egemonia unipolare dell’impero del dollaro fosse ormai arrivata a un punto critico, ha ricominciato, con l’amministrazione “dem” in sella a Washington, a esercitare una pressione costante su Mosca e Pechino e sui loro partner. Pressione che ha fatto seguito, è giusto sottolinearlo, all’uscita unilaterale degli Stati Uniti, negli ultimi anni, dal trattato sui missili anti-balistici (ABM), dal trattato sull’impiego di forze nucleari a medio raggio (INF) e dal trattato “Open skies” e dalla costituzione dell’alleanza militare Aukus con Gran Bretagna e Regno Unito. Una speciale menzione va poi dedicata al blocco, grazie alle continue pressioni americane, del gasdotto North Stream 2, infrastruttura strategica per la Germania e l’Europa continentale ma stoppata (ben prima che dalle sanzioni successive all’invasione russa del 24 febbraio 2022) dalla decisione presa a settembre 2021 dall’agenzia tedesca per le reti, la Bundesnetzagentur, di vietare il passaggio del gas dalle pipeline ormai pronte a causa del rischio di un monopolio da parte di Gazprom: chiaramente una scelta politica favorita dal Governo del nuovo cancelliere Olaf Scholz.
Una scelta, quella tedesca, che ha compromesso non solo un’infrastruttura strategica, soprattutto in un momento di difficoltà per l’elevato costo delle commodities, dal valore di 55 miliardi di metri cubi di gas per tratta, ma anche i rapporti che la precedente cancelliera Merkel aveva saputo ricucire con il Cremlino. Non stupisce, quindi, che il presidente russo Vladimir Putin abbia ultimamente coordinato le proprie scelte con la Cina, verso le cui braccia è stato sempre più spinto negli ultimi anni proprio dall’aggressività occidentale. Il culmine si è avuto con la presenza al fianco di Xi Jinping all’apertura dei giochi olimpici invernali di Pechino e la dichiarazione congiunta del 4 febbraio 2022, con cui i due leader hanno, di fatto, formalizzato un patto ferreo di alleanza. Alcuni tra i passaggi principali del testo, riportati da Marinella Mondaini in un articolo su L’Antidiplomatico, non hanno bisogno di commento: si è sottolineato infatti che “la posizione della Cina sulle richieste di sicurezza della Russia agli Stati Uniti e alla Nato è di totale comprensione, rispetto e sostegno. Pechino è solidale con Mosca, contro l’ulteriore espansione della Nato a est” e che “la Cina e la Russia esortano gli Stati Uniti d’America a rinunciare al piano di posizionare i missili di corta e media gittata con basamento a terra in Europa”. Da notare il riconoscimento delle pretese cinesi su Taiwan e, infine, il passaggio in cui Pechino e Mosca hanno condannato “l’attività militare biologica degli Stati Uniti”.
In questo percorso, quindi, si innesta la nuova crisi ucraina. Già dal 2021 si era incominciato a parlare con sempre maggiore insistenza di un ingresso di Kiev nella Nato. Ora, al di là delle considerazioni sull’allargamento a Est dell’alleanza, che di fatto si trova già ad accerchiare i confini russi, perché questo eventuale ingresso avrebbe potuto essere estremamente pericoloso per Mosca lo ha illustrato brillantemente l’analista geopolitico Andrew Korybko, secondo il quale gli Stati Uniti e i loro alleati si preparavano a installare nel territorio del “granaio d’Europa” un sistema balistico capace di neutralizzare, in ipotesi, i sistemi di difesa nucleare “second strike” russi. Questo avrebbe significato, in breve, che in caso di attacco nucleare la Russia (che basa la propria influenza internazionale anche, se non soprattutto, sull’enorme potenziale di deterrenza a disposizione) non sarebbe stata capace di difendersi adeguatamente e, quindi, sarebbe andata incontro a una possibile distruzione.
Così è forse più comprensibile capire il perché dell’invasione, apparentemente folle, decisa da Vladimir Putin, al netto della retorica sulla necessità di ripulire l’Ucraina da forze neonaziste, che non ha convinto nessuno, considerando che in sette anni dal colpo di Stato filo-occidentale di Maidan del 2014, il massacro di civili russofoni nel Donbass è stato sistematico (si parla di oltre 14mila morti), senza che questo abbia comportato alcuna reazione sconsiderata da parte russa. La scelta, (provocata dal fallimento del tentativo di ottenere un assenso alle richieste precedentemente avanzate all’Occidente sulla neutralità della stessa Ucraina) è stata effettuata non senza dover vincere qualche resistenza interna, come un recente video del suo scambio con il capo dei servizi d’intelligence esteri russo, Sergey Narishkyn, ha lasciato intendere. I perché della possibile renitenza sono di facile intuizione: le contromosse da hybrid warfare adottate dall’Occidente con le sanzioni e l’esclusione di alcuni istituti finanziari della Federazione Russa dal sistema Swift (si tratta, di fatto, di una dichiarazione di guerra), rischiano di mettere in ginocchio finanziariamente un Paese già provato da due anni di pandemia, con un’economia sicuramente più fragile rispetto al passato. Sono misure certamente non indolori anche per l’Europa occidentale che, oggi, non ha modo di sostituire interamente le forniture energetiche russe e va quasi certamente incontro a una durissima crisi economica a sua volta. Di più, secondo l’ex premier italiano Romano Prodi, l’impatto delle sanzioni, infatti, “sarà del tutto asimmetrico. Costerebbero molto all’Europa e in particolare all’Italia e alla Germania. Costerebbero invece molto meno agli Stati Uniti che le stanno chiedendo con forza, ma non hanno con la Russia gli stessi nostri rapporti di scambio”.
Gli stessi Stati Uniti, dal canto loro, non possono che esultare per la situazione venutasi a creare. Hanno infatti già ottenuto una frattura forse irreversibile tra la Russia e gli europei dell’Ovest, necessità strategica funzionale alla sopravvivenza delle loro politiche imperiali, che si basano, in base alla classica dottrina geopolitica talassocratica anglosassone, sull’assenza di un agglomerato che riesca a congiungere la massa continentale eurasiatica sotto le medesime insegne, ricompattando allo stesso tempo il fronte interno della Nato contro il nemico Putin.
Un nemico che gli Stati Uniti e i loro alleati (ma sarebbe meglio parlare di junior partner, pronti ad assecondare senza colpo ferire gli ordini impartiti) hanno messo all’angolo con continue provocazioni, ignorando (nella migliore delle ipotesi) fino a dove potessero arrivare le conseguenze. In questo scenario il conflitto diretto tra un’alleanza guidata da un’élite che appare mossa da un pericoloso fervore ideologico, nella convinzione di rappresentare una “civiltà del bene” da esportare a ogni costo, più che da logiche esclusivamente razionali, e i suoi sfidanti sempre più assertivi è solo (purtroppo) questione di tempo.