Steinbeck e il paradosso di Caino
Il grande romanzo americano non è un’araba fenice. C’è, c’è stato e, con ogni probabilità, ci sarà sempre. Perché gli americani hanno la “frontiera”, hanno gli spazi sconfinati (per quanto ancora?), hanno la genuina ingenuità della razza giovane, hanno sempre a portata di mano la Bibbia e maneggiano (quelli delle ultime generazioni) molto meglio degli altri le contraddizioni del progresso e della tecnologia. E poi perché non rinunciano mai a inserire la dolorosa battaglia tra bene e male che si consuma dentro l’animo umano. Da Moby Dick a Underworld (De Lillo), da Tenera è la notte (Fitzgerald) alla Lettera scarlatta (Hawthorne), da L’arcobaleno della gravità (Pynchon) a L’urlo e il furore (Faulkner), sono tanti i titoli che potrebbero riempire lo scaffale de “grande romanzo americano”. Chi non trovasse tra essi La valle dell’Eden, che pure ne è uno dei prototipi meglio riusciti, può correre in libreria. Bompiani ha appena dato alle stampe una nuova (e molto accurata) edizione del capolavoro di John Steinbeck. La traduzione è nuova di zecca e porta la firma di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini (c’è anche una dotta prefazione di Luigi Sampietro).
Le storie di tre famiglie si intrecciano in un periodo compreso tra la Guerra Civile e la fine della Grande Guerra. E il racconto si sposta progressivamente dall’Irlanda (paese d’origine di Samuel Hamilton) al Connecticut, per concludersi in una fertile e assolata valle della California. Facendo così il percorso inverso dello stesso Steinbeck che in California è nato e cresciuto prima di trasferirsi sulla East Coast (New York).
Questo grande racconto familiare pesca il suo archetipo e quasi la sua sintassi narrativa nella tradizione biblica. East of Eden (il titolo originale) fa riferimento a una passo della Genesi. Nella prima parte, infatti, due fratelli (Charles e Adam) si trovano nella condizione di contendersi il privilegio dell’amore paterno. E lo stesso destino si troveranno a vivere i figli di Adam (Aaron e Caleb). Il più grande personaggio del romanzo è comunque femminile. Si tratta di Cathy, la moglie di Adam (e amante di Charles), che abbandona il tetto coniugale per una vita di libertà e dissolutezze. La sua algida imperturbabilità, il suo cinismo e la sua violenza, la rendono quasi “inumana”. Tanto che si sprecano, nel corso del lungo racconto, i riferimenti a personaggi della mitologia ebraica e greca come Lilith e Lamia.
Straordinario, al riguardo, il paragrafo in cui Adam viene costretto dall’amico Samuel Hamilton e dal domestico cinese Lee a scegliere un nome per i due figli avuti dalla donna (Cathy) che lo ha abbandonato poco dopo averli partoriti. I nomi verranno pescati, ovviamente, dalla tradizione biblica, ma l’occasione offre a Steinbeck il destro per riflessioni semiserie sul destino di grandi personaggi come Caino e Abele. Il vecchio Samuel a un certo punto osserva divertito: “Non è strano che Caino sia forse il nome più famoso al mondo e, a quanto ne so, portato da un solo uomo?” Lo stesso vecchio contadino irlandese sentenzia subito dopo: “Due storie ci hanno ossessionato e perseguitato fin dall’inizio. Le portiamo con noi, come code invisibili: la storia del peccato originale e quella di Caino e Abele”. Il futuro e il passato, l’amore e l’odio, la mediocrità e la grandezza, la ricchezza e la povertà: tutto il racconto si sviluppa attraverso queste dicotomie che non fanno che ripetere e riproporre e rielaborare la storia di Caino e Abele.
A proemio della quarta e ultima parte del romanzo è il narratore/autore a spiegare la sua poetica. “Io credo che nel mondo ci sia una storia sola, fonte di infinita riflessione e meraviglia… e che si ripete a tutti i livelli del sentimento e dell’intelligenza. Vizio e virtù sono stati trama e ordito della nostra prima presa di coscienza, e saranno il tessuto dell’ultima, e questo malgrado tutti i cambiamenti che potremo imporre a campi, fiumi e montagne, all’economia e a usi e costumi. L’uomo, dopo che si è spazzolato via la polvere e la segatura della vita, resta solo con questa dura, cristallina domanda: era bene o male? Mi sono comportato nel modo giusto o in quello sbagliato?” Insomma per Steinbeck tutto si può ridurre a una lotta fratricida e al conseguente interrogativo morale tra bene e male.
Adam e Charles prima, Aaron e Caleb dopo, attraversano il romanzo per compiere il loro destino di riscatto e redenzione, di tribolazione e martirio. Più di mezzo secolo di storia americana fa poi da sfondo a questo racconto, quasi un controcanto naturale. Per un “realismo” assolutamente originale capace di restituirci un affresco affatto universale della natura umana.
Se non è questo il “grande romanzo americano”, allora il “grande romanzo americano” non esiste.