La solitudine del lettore di romanzi dimenticati
Quando scegliamo di farci indirizzare dal caso, quando scegliamo di non entrare in libreria in cerca di novità, quando raccogliamo un volume appena ritrovato durante un trasloco oppure appena regalato da un amico, corriamo un rischio. Quello della solitudine. Non l’isolamento che ogni lettore si costruisce per concentrarsi e per meglio aderire alla storia che l’autore gli propone. Bensì la solitudine di una lettura “fuori moda”. Accade anche a chi sceglie i classici o i cosiddetti “libri di catalogo”. Ma accade comunque meno spesso che a coloro che invece cedono a un colpo di fulmine, all’improvvisa seduzione di un volume venuto fuori per caso da un passato (non necessariamente lontano ma sicuramente archiviato). A me è successo recentemente. Ho da poco finito di leggere Mani vuote, uno dei primi romanzi di Saverio Strati. Scrittore calabrese (era nato a Sant’Agata del Bianco nel 1924), si era trasferito al nord negli anni Cinquanta, vivendo prima in Svizzera e successivamente a Roma e in Toscana (dove è morto a Scandicci pochi mesi prima di compiere novant’anni nell’aprile di tre anni fa). Non aveva nemmeno dieci anni quando lasciò la scuola per fare il muratore e poté riprendere gli studi soltanto a guerra finita. Fu un autodidatta e si adattò a tutti i mestieri. E nei suoi libri il lavoro e in generale la “questione meridionale” sono al centro della scena. Nel 1977 vinse anche il premio Campiello con quello che è sicuramente il suo testo più fortunato e forse più compiuto: Il selvaggio di Santa Venere (Mondadori). Mani vuote è stato pubblicato nel 1960 (sempre da Mondadori) e in nuce porta già i temi e i valori del suo capolavoro. Però leggerlo oggi dà l’impressione di una straordinaria modernità. Si tratta di un romanzo di formazione. Vi si racconta infatti la vita di un ragazzino di nome Emilio. Del suo sogno di emanciparsi da una condizione di povertà estrema. Di diventare adulto e, soprattutto, di emigrare in America. La vita di questo ragazzino calabrese però è un inferno. Prima di raggiungere l’agognata meta dovrà cedere ai bisogni della famiglia. Dovrà imparare il lavoro del pastore, prima, e del carbonaio, poi. Facendo sempre i conti con la brutale semplicità morale della vita dei boschi e dei campi e soprattutto della legge non scritta degli uomini col coltello (quei briganti che poi si evolveranno in ‘ndrangheta). Lo stile di Strati è ruvido, secco e per questo ancora più incisivo. Sì, è sempre neorealismo. Però questa etichetta non toglie nemmeno un grammo del valore del testo. Oggi andrebbe letto a scuola. Perché l’inferno che si racconta (un inferno nel quale i ragazzi imparano a essere uomini) è tutto ciò che precede l’atto dell’emigrazione. E forse, osservando in televisione gli sbarchi dai gommoni di tanti migranti che dall’Africa scelgono il rischio di una traversata pur di non combattere contro la fame e la violenza della loro terra d’origine, dovrebbe far riflettere sul fatto che quello che si vede è soltanto l’esito di una vita piena di soprusi, sofferenze e frustrazioni. Leggere questo romanzo di Strati a scuola potrebbe insegnare ai ragazzi molte cose. Per esempio, cosa vuol dire tenere un gregge di capre e quale tragedia scoppi se un piccolo pastorello se ne perde una. Oppure si può imparare l’antica arte di fare il carbone. Non quello da estrarre dalle miniere, bensì quello che si ricava dalla cottura del legno. I carbonai lavoravano anche diciotto ore al giorno in mezzo a un bosco in perfetta solitudine per produrre legna da “cuocere”. Senza poi avere nemmeno la certezza di riuscire, se solo sbagliavano qualche cosa nella fase della cottura. Le mani vuote del titolo sono quelle con cui nasce Emilio. Una povertà in cui fatalisticamente ricade ogni volta che tenta di liberarsene. Eppure, a dispetto del titolo, il romanzo non perde la speranza e può regalare anche al lettore di oggi un messaggio positivo. Può intanto fargli capire che quell’approdo del naufrago non è l’inizio di un periodo difficile. Semmai è la fine di una parentesi a dir poco tragica. Certo, il romanzo Mani vuote si inserisce a pieno titolo nel filone già ben rappresentato da autori di grande prestigio come Corrado Alvaro, Mario La Cava, Leonida Repaci, Rocco Carbone e Carmine Abate. Ma lo fa con una voce autentica e affatto originale. Un peccato quindi che non se ne parli. A lettura ultimata ho provato a cercarlo su Google ma niente da fare. Anche le librerie on line non lo danno come titolo reperibile. Ecco cosa intendevo per solitudine del lettore di grandi romanzi purtroppo dimenticati.