La “Recherche” vicentina di Meneghello tutta da riscoprire
Penso spesso al biennio 62-63 dell’altro secolo. Sono stati gli ultimi anni di crescita demografica. Gli anni più intensi del boom economico. E in quei due anni sono stati pubblicati libri fondamentali per la nostra storia letteraria. Soprattutto mi impressiona l’idea che nello stesso anno (in questo caso il ’63 siano usciti praticamente in contemporanea capolavori del calibro di La cognizione del dolore, Fratelli d’Italia, Centomila gavette di ghiaccio, Un amore, Lessico familiare e Il compagno don Camillo. Un’annata eccezionale (se si trattasse di vitigni). Al lungo elenco si potrebbero aggiungere uno Sciascia (Il consiglio d’Egitto) e un Calvino (La giornata di uno scrutatore) minori.
In questo caso però mi concentro su un altro capolavoro uscito proprio nel 1963 e che la Rizzoli continua a ripubblicare in una bellissima edizione Bur arricchita di utile apparato di note e di un’introduzione di Pietro Marchi. Sto parlando di Libera nos a Malo di Luigi Meneghello. Testo fondamentale per diverse ragioni, non solo letterarie. In pieno boom questo “expat” ante litteram (in Inghilterra dove insegnava letteratura italiana all’università di Reading) torna alle sue origini contadine e racconta la vita di un piccolo borgo del Vicentino (Malo). Il titolo evoca il Pater noster in un gioco di parole col nome del paese che fin dalle prime pagine fa capire quanto sia cruciale la questione del linguaggio e dell’identità. Attraverso le parole e il dialetto il narratore ci racconta la sua vita partendo dalla prima infanzia fino al suo presente di uomo maturo e ormai “moderno“. Non proprio un romanzo di formazione o un libro di memorie, però. Semmai la testimonianza della trasformazione della civiltà contadina. Un libro che si pone, da questo punto di vista, sulla scia di romanzi come Memoriale (di Paolo Volponi), Il maestro di Vigevano (di Lucio Mastronardi) e La vita agra (di Luciano Bianciardi). Tutti usciti l’anno precedente e nei quali gli autori avevano l’urgenza di lanciare l’allarme di quanta alienazione stava emergendo dietro le pieghe del progresso economico e dietro gli effetti più corrivi del boom e dell’abbandono delle campagne.
I riti religiosi, la vita di paese, la scoperta dell’italiano sono tutti momenti di passaggio verso un’emancipazione che si è pagata a caro prezzo. “Le piazze e le strade erano la nostra agorà; la nostra lingua, a differenza di quella attica, non si scriveva, ma era ricca e flessibile, e con essa si riproduceva come in uno specchio di parole il quadro rallegrante di una vita fatta non solo di triboli, ma anche di incontri, di avventure, di capricci alati, di riflessioni, di liberi eventi”.
Solo in apparenza si trattava poi di una vita immobile. Autarchica ma non impermeabile. “Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più di adesso – racconta il narratore parlando della penuria di attrezzi e dell’assenza di elettrodomestici -; le idee venivano bensì da fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era umanizzato in questo modo”. Era un mondo che sembrava così povero che le differenze di classe si percepivano principalmente a tavola. “I servizi pubblici erano in comune, in comune la lingua, le scuole le osterie, le chiese, i confessionali. Non era in comune il cibo: e più volte – racconta ancora il narratore – vedendo i poveri mangiare ebbi lo shock di sentire una differenza che in seguito avrei potuto chiamare di classe. Il culmine del successo mondano per i nostri vecchi era quello: mangia bene”.
Potremmo dire che, come Proust ha sfruttato egregiamente gli stimoli della madeleine per ricostruire le emozioni della sua infanzia, così Meneghello parte dalle litanie di chiesa per ricomporre un mosaico di visioni, personaggi, situazione attraverso le conquiste della lingua e le vittorie del dialetto. Resta un testo importante ancor oggi e non perde di suggestione anche per i giovani lettori con quel caleidoscopio di corse in bicicletta, amicizie, primi amori e primi contatti con la quotidianità della morte che fanno di questo romanzo uno dei romanzi esemplare di un’epoca di grande trasformazione.