I buoni libri sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Ed è così che, dopo la lettura di Libera nos a Malo, ho iniziato quella de I piccoli maestri, altra opera di ispirazione autobiografica con la quale Luigi Meneghello ha dato testimonianza della sua militanza nelle milizie partigiane. Anche assaporare la seconda ciliegia ne è valsa la pena. Il racconto parte dall’8 settembre che sorprende il protagonista allievo ufficiale di stanza nel Viterbese. Da lì la risalita verso casa, in Veneto, a piedi o con mezzi di fortuna. Poi la presa di coscienza e l’adesione a una formazione partigiana di Giustizia e Libertà. Il titolo del libro dà conto proprio del tipo di squadra cui si è legato il protagonista. Tutti giovanissimi studenti universitari guidati da un professore antifascista. Con la testa piena di azioni eroiche tratte dai classici greci e latini e la voglia di misurare le incombenze della guerra con le teorie di palingenesi sociale. Alla fine, saranno loro a essere messi sotto esame dalla guerra che si risolverà in un violento e drammatico apprendistato alla vita.

In una scena memorabile, ambientata come quasi tutto il resto del racconto sull’altopiano di Asiago tra le montagne del Cadore, si vedono due partigiani difendersi dall’afa estiva sotto le fronde di un albero. Davanti a loro, in lontananza, due contadine continuano a lavorare in un campo. I partigiani non riescono a capacitarsi di come le due ragazze riescano a sopportare quel caldo mentre piegate sulla terra continuavano in silenzio il loro lavoro. La scena, riflette uno dei due partigiani, è paradossale. Loro si godono un intermezzo di pace in mezzo alla guerra, mentre le contadine che non combattono non smettono mai la loro “guerra” fatta di fatica e sudore.

E il punto sul quale ruota la parabola di questa avventura è proprio il fatto che la guerra non rappresenta che una parantesi nel lungo fiume della vita del protagonista. In molti, all’inizio del movimento di liberazione, avevano sperato che la guerra potesse rappresentare un “amarissima medicina” con la quale non soltanto liberarsi del nemico nazista ma anche emendare le storture della società italiana. Liberarsi dal fascismo avrebbe dovuto essere liberarsi dai vizi antichi e dalle vecchie piaghe del nostro Paese. Ma non è così. E nelle pagine finali il protagonista avverte con chiarezza che la Liberazione è soltanto un breve momento di euforia, un’amara illusione.

La retorica si era già impadronita dell’ideologia antifascista e i piccoli maestri, deposte le armi, venivano chiamati – all’alba del 25 aprile – a scrivere editoriali sulla vittoria. Ma l’editoriale è già un punto fermo. Una pietra tombale per nascondere i mali tutt’altro che sconfitti che attanagliavano la nostra comunità devastata dalla guerra.

Siamo soltanto nel 1964 quando Meneghello dà corpo a questo racconto, eppure la guerra e il tormentato e vorticoso dopoguerra sembrano lontanissimi. “Un po’ alla volta – fa dire al protagonista che si trova ad osservare spaesato i festeggiamenti della Liberazione con i tricolori liberati dal simbolo sabaudo – mi era venuta un’assurda voglia di ritirarmi subito da questa storia, andare in biblioteca quella mattina stessa, prendere un libro e mettermi a studiare”. Le biblioteche erano ovviamente chiuse e a fermentare era soltanto la cultura propagata dai giornali. E il partigiano disilluso chiamato a scrivere un editoriale all’alba della nuova era antifascista urla sconfortato: “Noi abbiamo bisogno di studiare, non di scrivere!”

Ai piccoli maestri, intellettuali ancora immuni dal morbo della disillusione, era rimasta la voglia di studiare, di applicare le teorie alla cura del mondo. Questi giovani e goffi partigiani, però, non saranno tra coloro che guideranno le sorti magnifiche e progressive del dopoguerra. Si rintaneranno nelle piccole torri eburnee di provincia. Forse è proprio quel loro lento ritirarsi, quel loro lasciarsi marginalizzare dalla società, il seme della società in cui oggi ci troviamo a vivere.

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