Così Camus ha isolato e disinnescato il morbo dell’intolleranza
Nella mia letterina a Babbo Natale ho chiesto che a quelli troppo inclini a sorvolare sulle sempre più frequenti manifestazioni di simpatia nei confronti di fenomeni storici come il nazismo venga recapitato un libro di Albert Camus. Un romanzo che non parla di nazismo, però. Un romanzo che non è un romanzo storico. Un romanzo che non è nemmeno ambientato in Europa. Bensì in Algeria. Chi teme si tratti di qualcosa che anche lontanamente parli di immigrazione o di ius soli deve però tranquillizzarsi. Non si parla di magrebini in quel romanzo. Bensì di pied noir. Ovvero di francesi. Francesi dalla pelle bianca. I francesi che, insomma, popolavano la colonia africana nella prima metà del XX secolo. Il romanzo si intitola Le peste (in Italia è pubblicato da Bompiani). Sarebbe bello che molti leggessero questo romanzo oggi. Oggi che la retorica delle fake news fa strame non solo del buonsenso ma anche della memoria storica. Il libro racconta, è vero, la diffusione nella città di Orano del morbo della peste. E’ la cronaca stessa dell’epidemia redatta da un medico (Bernard Rieux). Chi meglio di un medico, infatti, può raccontare questa storia, che inizia come tutti sanno con la moria improvvisa e schifosa di migliaia di topi che escono dalle loro tane per morire sfacciatamente davanti a tutti? Camus confeziona questo romanzo-allegoria da par suo. Descrizioni asciutte, passo lento e sguardo lucido. Senza tentennamenti, come un entomologo osserverebbe le sue piccole creaturine sotto una lente d’ingrandimento. Scritto negli stessi anni del secondo conflitto mondiale il romanzo nasce – è vero – come metafora del nazismo, inteso come male assoluto. L’impotenza e l’esitazione delle autorità locali sul modo di difendersi e arginare il morbo ricordano infatti l’impotenza e l’esitazione dell’Europa stessa di fronte al nazismo. Nella piccola Orano come nel vecchio continente c’è chi è animato dallo sforzo di combattere il “morbo”, chi è accecato dallo spirito religioso, che in alcuni casi arriva a giustificare la peste, e chi cerca soltanto evasione per portare avanti un’esistenza pacifica senza coinvolgimenti. Ovviamente il futuro premio Nobel non intendeva fare una semplice equazione morbo-nazismo. Quel che interessa Camus è la rivolta dell’uomo singolo contro il male, e i singoli e privati motivi della sua rivolta. Insomma è un discorso altro, più alto, più filosofico. Però la chiarezza del suo stile, la semplicità della storia raccontata (che ricordano vagamente Leonardo Sciascia, altro volterriano di stretta osservanza) sono strumentalmente molto utili per instillare l’anticorpo del dubbio nei lettori di oggi. Il migliore atteggiamento da tenere nei confronti di queste corrive manifestazioni di simpatia verso ideologie xenofobe e totalitariste è quello della prudenza nei giudizi e di attenta riflessione. Il romanzo, d’altronde, si chiude con un monito che è sempre valido e lo rimarrà anche in tempi di maggiore calma. “Il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”. E contro questa condizione naturale non c’è che una cosa da fare: vigilare. Vigilare sempre e con attenzione. In un altro passo Camus fa dire al suo medico-cronista: “So per scienza certa che ciascuno la porta in sé la peste, e nessuno al mondo ne è immune… Il microbo è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti”. Insomma bisogna vigilare e rimanere sempre attenti. Magari tenendosi la mente sgombra da pregiudizi grazie a grandi libri come questo.