Così Bolaño sfida la pazienza dei farmacisti colti
C’è un romanzo la cui lettura mi ha precipitato in una sorta di cilindro rotante. Attraversare le pagine di 2666 di Roberto Bolaño (Adelphi, traduzione di Ilide Carmignani) è come sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, come salire sulle montagne russe. Meglio ancora: come salire su delle montagne russe dentro un labirinto. Se questa “diavoleria” fosse possibile, sarebbe la perfetta metafora dell’ultimo grande romanzo dello scrittore cileno. Un’opera straordinaria. La fatica che costa al lettore è ampiamente ripagata. Perché a ogni pagina c’è un abisso narrativo in cui precipitare. I personaggi principali lasciano volentieri il campo a centinaia di figuranti che hanno il tempo di dire la loro storia, di fare sapere della loro esistenza e delle loro avventure. Un romanzo, insomma, dove non ci sono limiti e pur tuttavia scorre fluente e placido verso la sua foce.
Ecco un romanzo che proprio non può mancare nella biblioteca domestica. Da dieci anni a questa parte è entrato di diritto nell’empireo dei grandi classici contemporanei. Lo si può tranquillamente affiancare ai romanzi di Thomas Pynchon, di Don De Lillo e di David Foster Wallace. Ma soprattutto la sua presenza non stona nel ristretto circolo di quei romanzi che hanno provocato svolte decisive nel percorso della letteratura moderna (penso ovviamente all’Ulisse di Joyce o alla Recherche proustiana) dal momento che questo romanzo-mondo si propone come un insieme di cose. Un romanzo contenitore di romanzi (l’autore stesso l’aveva ideato come cinque sezioni legate tra loro). Un testo dove ci si trova di tutto. E soprattutto dove si usano diversi registri. Dal thriller, al grottesco, dal kitch fino al documento giornalistico. Per capire cos’è e quale ambizione cova l’autore cileno basta pescare una citazione del romanzo stesso. Parlando dei gusti letterari di un farmacista, il professor Amalfitano, uno dei personaggi principali del romanzo, dice: “Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore”.
E in effetti l’ambizione dell’autore è stata ampiamente ripagata dal risultato. 2666 è esattamente questo. Si inizia con la ricerca di un misterioso scrittore tedesco da parte dei suoi più appassionati lettori. Questi col tempo diventano esperti di letteratura tedesca pur di approfondire la conoscenza di Benno von Arcimboldi. Un nom de plume difficile da tradurre in una persona in carne e ossa. Il ristretto gruppo diventa una squadra. Provenienti da Paesi diversi si ritrovano spesso per confrontare le proprie ricerche. Fino al punto in cui incappano in un professore spagnolo (Oscar Amalfitano) che ha abbandonato la Spagna per il Messico. Qui inizia la seconda sezione. Dove il lettore fa la conoscenza con Santa Teresa, la città maledetta al confine con gli Stati Uniti, in cui da tempo le donne sono vittime di uno spietato omicida seriale. E uno dei capri espiatori per la polizia è uno spilungone biondo, un tedesco. Chi cerca di far luce sul lato oscuro di Santa Teresa (che corrisponde nella realtà a Ciudad Juarez ) è il giornalista americano Oscar Fate. A lui, al suo racconto, è affidata la terza sezione. Quella che precede e introduce “La parte dei delitti”. Sezione che precipita il romanzo nel male assoluto di una violenza cieca e gratuita in un ambiente cupo e surreale. Bolaño qui rende onore al coraggioso giornalista Gonzalez Rodriquez; riscatta il suo coraggio riprendendo nel romanzo le ipotesi giornalistiche rimaste ipotesi. Porta alle estreme conseguenze la sua indagine facendo capire al lettore che dietro quella carneficina c’era l’industria degli snuff movie. Quindi si finisce con “La versione di Arcimboldi”. Che tutto il romanzo riassume. Con agnizioni e collegamenti sorprendenti.
La grandezza è però soprattutto nella capacità affabulatoria di Bolaño che a ogni pagina tira fuori storie dentro le storie, personaggi che vivono lo spazio di qualche paragrafo soltanto ma che rimangono impressi per i tanti dettagli che di loro veniamo a sapere. Il racconto è un gioco di scatole cinesi, matriosche infinite. Perché, in fondo, questo romanzo-mondo celebra anche il racconto, l’arte narrativa in sé stessa, scegliendo il meta-romanzo come schema da cui partire e a cui tornare. Cosa c’è d’altronde di più romanzesco di uno scrittore che si cela dietro un nome improbabile in un romanzo il cui titolo di per sé è un enigma irrisolto? Anche se c’è chi ha avanzato un rimando a un altro romanzo di Bolaño, Amuleto (sempre pubblicato da Adelphi) dove ricorre questa citazione: “poi cominciammo a camminare per Avenida Guerrero, loro un po’ più piano di prima, io un po’ più depressa, la Guerrero a quell’ora sembra più che altro un cimitero, ma non a un cimitero del 1974, né un cimitero del 1968, né a un cimitero del 1975, ma un cimitero del 2666″.