Non potevo non leggerlo, alla prima occasione. Paolo Nori, forse suo malgrado, è l’autore del momento. E il suo romanzo Sanguina ancora (Mondadori), dedicato alla figura e all’opera di Dostoevskij, affronta un tema, ancora suo malgrado, fin troppo attuale. E il tema non è semplicemente l’arte letteraria del celebre (e ampiamente celebrato) scrittore russo. Bensì l’utilità, anche per lettori distanti per epoca e per posizione geografica, dei suoi romanzi e racconti.

Nori è un romanziere (oltre che un raffinato studioso di civiltà e letteratura russa) molto talentuoso. Sa essere coinvolgente col lettore. Ha una voce simpatica e originale. E questo testo (Sanguina ancora, appunto)  nelle sue intenzioni è un romanzo. Lo dice sempre. “In questo romanzo”, “mentre scrivevo questo romanzo”, “il mio romanzo” sono espressioni che incontriamo sovente durante la lettura. Eppure mio sono chiesto più volte se fosse la definizione corretta. D’altronde parla di sé in prima persona (come fa il più delle volte anche nei suoi romanzi), racconta della sua vita, e ci fa conoscere scrittori e critici russi dell’Ottocento e del Novecento, introducendoli nella maniera più accattivante possibile. Sarebbe una perfetta lezione di letteratura russa ma senza le pose e il birignao dei professori. Anzi. Il suo modo di introdurre il lettore nell’universo dostoevskiano è così empatico e furbetto che alla fine il lettore esce da questa “lezione” con un bagaglio ben più ricco e pesante che dopo un intero ciclo di seminari accademici. Perché certe cose, bisogna dirlo, se le sai raccontare con gusto e intelligenza, restano in mente. Scolpite come su pietra.

A esempio il fatto che per tutta la vita ho chiamato Dèmoni un romanzo che in realtà bisognerebbe chiamare I demòni. Ma questa è una banalità. In verità ho imparato tutto. Perché dei russi e di Dostoevskij conoscevo poco o nulla (se non si considerano le letture ormai perse nel tempo dei suoi capolavori Delitto e castigo e Il giocatore). Ora aspetto che il mio cuore sanguini. Appena affronterò la lettura di Memorie dal sottosuolo, Il sosia, L’idiota e I fratelli Karamazov (uno qualsiasi di questi testi dovrebbe andar bene) il mio cuore sanguinerà e potrebbe non smettere più. Io me lo auguro.

Ed è quello che è successo al nostro Nori. Perché questo “romanzo di formazione” (potrebbe andare bene come definizione?) parla di Nori perché parla dei romanzi di Dostoevskij. Ovvero parla di questi (e dei romanzi di Tolstoj) perché loro parlano di noi e ci parlano. Nori insomma usa il mezzo del romanzo per raccontare come la vita ti cambia se incontri la verità del romanzo, se rispondi alla sua voce, e soprattutto se questa – a distanza di anni – ti fa ancora sanguinare il cuore.

Ps

Ad un certo punto Nori cita l’orazione funebre tenuta da Dostoevskij per Puskin. Non la cita (né tutta né in parte). Però la spiega e la ricorda. E soprattutto dice che ha avuto nei confronti di chi l’ha ascoltata in quella afosa giornata di giugno del 1880 il potere di sconvolgerne gli animi e di rendere tutti gli uditori più buoni. Desiderosi insomma di essere all’altezza, come semplici cultori, della fama di Puskin.  Ora mi metterò a cercare questo discorso. Però sarebbe bellissimo se lo potessero leggere i vertici della Russia che ora si trova in guerra. E sarebbe ancor più bello che avesse su di loro lo stesso effetto riscontrato nel pubblico di Dostoevskij quella mattina di giugno del 1880.

 

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