Da qualche parte in questi giorni ho sentito citare Antonio Tabucchi. Anzi, per la verità, era un articolo (chissà su quale giornale o rivista) in un cui l’autore citava Pereira, il giornalista timido e pavido protagonista dell’omonimo romanzo che ha fatto conoscere e apprezzare anche dal grande pubblico nel 1994, dopo la vittoria del Premio Viareggio e del Premio Campiello, il suo autore. Nell’articolo – che colpevolmente ho letto troppo distrattamente – si diceva che sono tempi, i nostri, in cui è utile ricordare la figura di Pereira e il suo alto insegnamento morale.  La frase “sono tempi, i nostri in cui…” mi è rimasta in testa per giorni. E ho iniziato a chiedermi “perché? Che tempi sono?”  Appena ho potuto ho ripreso la mia copia del libro (uscito, come gran parte della produzione di Tabucchi, per i tipi di Feltrinelli). Ricordavo bene. O meglio abbastanza bene. La parabola di questo mediocre e pavido giornalista, ormai a fine carriera, che decide di lasciare la cronaca nera (dopo trent’anni) per dedicarsi al servizio culturale (sua mai nascosta ambizione giovanile). E trova un giornale nuovo che gli dà credito e la cosiddetta carta bianca. Siamo però nel 1938. E siamo a Lisbona. La censura è forte nel regime di Salazar e la tensione internazionale (per via della guerra civile nella vicina Spagna) rende il lavoro giornalistico particolarmente delicato.

Ricordavo anche dell’incontro tra Pereira e una coppia di giovani rivoluzionari. Due ragazzi impulsivi e squattrinati che si dedicano con passione alle trame rivoluzionarie. E poi, soprattutto, ricordavo la lingua di Tabucchi. Quel continuo e quasi ossessivo “sostiene Pereira” che fa dell’intero romanzo un racconto mediato e soggettivo. Sono stato felice di aver avuto l’opportunità di riprenderlo in mano. Di racconti morali proprio oggi, sì oggi, ce n’è sempre più bisogno. Il codardo cronista alla fine della sua parabola romanzesca si riscatta. E ci riscatta. E ci offre una speranza.

E Tabucchi è anche sorprendentemente anticipatore. Perché il suo protagonista, ogni volta che entra in un bar o in un ristorante, non fa che chiedere ai camerieri notizie del mondo. Lui, il giornalista, lui, che di professione dovrebbe acquisire informazioni e restituirle ai lettori, lui, Pereira ammette la sua incapacità a essere aggiornato sul mondo. E’ proprio in tempi come i nostri (pieni di fake news, di veline, e di propaganda di regime) che i giornalisti dovrebbero confessare la stessa impotenza di Pereira. Ma non lo fanno. Il  modesto ufficio del protagonista pensato da Tabucchi somiglia più a una torre eburnea, fatta di opere classiche e dizionari, che a una redazione. D’altronde la sua pagina culturale si occupa soltanto di tradurre racconti di autori ottocenteschi e di inserire un paio di rubriche dal titolo “Necrologi” e “Ricorrenze” che hanno il comune compito di celebrare il passato (e il canone). In fondo nella sua Lisbona non succede nulla. Il suo è un lavoro tranquillo. E, volendo, non rischia nulla e non ha bisogno di scontrarsi con le contraddizioni della regime autoritario. Eppure è proprio il tarlo umanista a renderlo uomo e quindi, alla fine, eroe. Speriamo che sia così anche oggi. Speriamo che chi si nutre di poesia, chi vive in simbiosi con i grandi capolavori di tutti i tempi, chi ha per compagni di vita Puskin, Molière, Brecht, Beckett e Manzoni, possa rimanere uomo anche di fronte alle atrocità di cui tutti veniamo a conoscenza tra mass media e social network.

La prima considerazione che ho fatto una volta chiuso il libro riguardava però la sua stessa età. Questo romanzo ha quasi  trent’anni. Ma se li porta benissimo. Non perché sembra scritto oggi (pochi autori contemporanei hanno  infatti ancora voglia di lavorare di lima sulla lingua), bensì perché sembra non invecchiare mai. Anzi sono i lettori  a invecchiare di fronte alla sua verità. E quando si aprono queste pagine si incorre nella stregoneria che aveva a suo tempo intrappolato Dorian Gray. E così Pereira rimarrà per sempre uno splendido e giovane eroe novecentesco, mentre noi, nostro malgrado, invecchieremo.

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