Dostoevskij, un applauso e una postilla
Non c’è niente di più odioso nel panorama letterario contemporaneo degli effetti perniciosi della cosiddetta cancel culture. Ovvero quella censura a posteriori su titoli e autori che, con i criteri dell’oggi, sarebbero fuori dal mainstream e dai confini della politically correctness. Fa sorridere se non fosse tragico. Il più classico degli esempi è Mark Twain, che oggi sarebbe costretto a subire un editing radicale per i suoi più celebrati romanzi. Ma nessuno scappa a questo regola idiota. Si è già detto di Cervantes, di Shakespeare, perfino d Balzac. Tra gli italiani mi viene in mente soltanto Carlo Dossi che, se non fosse un minore conosciuti – purtroppo – soltanto dagli addetti ai lavori, sarebbe messo alla berlina per il suo linguaggio scorrettissimo e per la lucidità delle sue provocazioni.
Come detto, c’è da sorridere se non fosse una tragica stupidaggine. Adesso, però, hanno provato a mettere all’indice anche la cultura russa. Per colpa della guerra. E non si è fatto altro che parlare di loro, dei grandi maestri russi, chiedendosi l’opportunità di accantonarli e di farli coprire dalla patina dell’oblio. Paolo Nori si è a più riprese fatto paladino di quella cultura e di quella letteratura dicendo che Tolstoj e Puskin niente hanno a che fare con le aberranti mire espansioniste di Putin e della Russia di oggi. L’idea che si debba prendere carata e penna e pubblicare articoli su articoli per difendere un concetto di assoluto buonsenso (l’arte sublime niente ha a che fare con i sanguinari tiranni che infettano la terra) dimostra che la situazione è critica.
Ma è davvero possibile mettere sullo stesso piano Dostoevskij e il pope Kirill? Mi sembra già penoso che si debba formulare la stessa domanda. Ecco che dunque l’unico atto di ribellione che la persona di buon senso può intestarsi è prendere in mano uno di quei capolavori che hanno fatto grande la letteratura russa e dimostrare, praticamente, che quei romanzi senza tempo niente hanno a che fare con la tragedia in corso in Ucraina.
Io ho scelto Dostoevskij (grazie al già citato Nori che dell’autore di Delitto e castigo è un acceso estimatore). E ho ripreso in mano il suo ultimo grande romanzo: I fratelli Karamazov (nell’ottima traduzione che a suo tempo ne fece Maria Rosaria Fasanelli per Garzanti). La celebre storia dei tre fratelli e del loro tanto discusso padre non ha bisogno del mio commento. Che sarebbe povera cosa rispetto a quanto già scritto da illustri commentatori (tra essi spiccano anche colleghi di D0stoevskij come Virginia Wolf, William Faulkner, André Gide e Stefen Zweig, solo per citarne alcuni).
Posso soltanto dire che questo grande romanzo più di altri sonda il mistero dell’uomo e l’eterno scontro tra il bene e il male. Sfrutta con un’efficacia impressionante strumenti come il dialogo e la voce dei singoli personaggi (non è un caso che proprio su questo testo ha prodotto una delle sue più efficaci riduzioni teatrali Luca Ronconi). E anche le digressioni non sono mai tali ma rappresentano sempre ingranaggi narrativi molto sofisticati.
E’ un romanzo che parla di pietà e di ferocia, di illusioni e di amarezze. La struttura dicotomica riguarda tutti. Persino i cadaveri (c’è quello del “santo” starec che marcisce e quello del piccolo Iljusecka che resta intatto). Per non parlare del pubblico ministero e del grande avvocato (che riassumono la vicenda della sfortunata famiglia nei termini di un dibattimento giudiziario) e delle donne (la virtuosa e Katja e la discussa Grusenka). E poi ci sono loro i tre fratelli che dominano la scena con le loro ingenuità e le loro passioni.
Dostoevskij chiude il romanzo addirittura con un sermone dell’ex novizio Alesa sulla necessità della fratellanza e dell’amore per il prossimo. Discorso scaturito dalla veglia funebre del piccolo Iljusecka. E sicuramente altrettanto fosca è la tinta che a questo romanzo regala il verdetto del tribunale. Un verdetto che ogni lettore ha sperato ingenuamente fosse diverso. Illuso magari dalla sagacia del grande avvocato giunto apposta dalla Capitale per difendere il frastornato Mitja. E invece a vincere sarà la voce del popolo (quello che ha bisogno di colpevoli e che oggi verrebbe definito giustizialista e che Dostoevskij indicava con la parola “contadinotti”).
Su questo ultimo aspetto del “romanzo giudiziario” posso fare una piccola postilla ancorata al presente. Si parla molto in questi giorni di riforma della giustizia e dei referendum che la interessano. Ebbene le due arringhe finali (che costituiscono l’acme di questo romanzo) anderebbero lette e studiate in ogni facoltà di legge perché ben rappresentano tutte le trappole e gli inganni del sistema giudiziario. Non basta, sembra dire Dostoevskij, l’analisi acuta di un esperto per evidenziare tutte le ombre di un processo. Alla fine si dovrà trovare un colpevole e si sceglierà sempre la strada più corta e agevole per trovarlo. Magari si potrebbe affiancare la lettura dei Fratelli Karamazov a quella del Diario di un giudice di Dante Troisi (uscito nel 1955 e proprio in questi giorni riportato in libreria da Sellerio).