L’idiota di genio e il suo inno alla pace
“Il patriottismo, la fedeltà al dovere e l’abnegazione sono le vere armi in una guerra”. Con queste parole si chiude il grande romanzo Il buon soldato Scvejk dello scrittore boemo Jaroslav Hasek (da me letto nell’edizione dell’Universale economica di Feltrinelli con la traduzione di Bruno Meriggi). Si chiude con queste parole non soltanto il romanzo (a suo modo picaresco, a suo modo on the road, sicuramente pacifista) ma anche la vita del suo autore (1883-1923). Infatti è rimasto incompiuto anche se il lettore non ne coglie l’incompiutezza visto che una trama vera e propria non c’è.
Al centro del lungo romanzo c’è la Grande guerra. Con ovviamente l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando come elemento scatenante. Il buon Scvejk è un allevatore di cani. Un “povero cristo” senz’arte né parte. E, come la gran parte dei personaggi che popolano questo romanzo corale, ha un debole per il buon vino. E l’alcol, si sa, fa straparlare. Ed ecco che il buon Scvejk si ritrova richiamato alle armi come punizione per la sua sincerità. Da qui un lungo viaggio verso il fronte. Dove non arriverà mai. Né lui, né gli altri personaggi del romanzo. Infatti, questo “classico sulla tragedia della guerra” non offrirà al lettore nemmeno un morto ammazzato dal fuoco nemico. Nemmeno una cruenta scena di sangue. Eppure resta un testo fondamentale nella letteratura bellica perché parla di come l’umanità arriva a imbestialirsi uccidendo i propri fratelli.
Un romanzo dissacrante, tra l’altro, perché il buon Scvejk altro non è che l’incarnazione nel primo Novecento di Candide, di Bouvard e di Pecouchet. Uno solto geniale che manda in tilt la finta razionalità e il logoro buonsenso degli ufficiali.
D’altronde per smascherare la malizia dei nostri interlocutori fingerci stupidi ci ha sempre aiutato moltissimo. Questo Hasek lo sa bene. E fa un’operazione singolare: mette al centro della scena un naif per denunciare la miseria umana della classe dirigente che portò il mondo al massacro della Prima guerra mondiale.
Il bersaglio prediletto dallo scrittore boemo ovviamente è l’ottusità di una burocrazia senza senso. Alla fine del lungo percorso di lettura, però, ci si rende conto che la guerra come tale è soltanto il momento finale di una progressiva perdita di umanità. E fa ancor più male vedere la miseria e la bassezza cui si riduce la gran parte dei personaggi di questo capolavoro prima ancora di premere il grilletto contro il nemico.
Svejk a suo modo è un campione di bontà. E un narratore molto facondo. Dalla sua bocca escono storie esemplari che calzano perfettamente come paragone delle infinite disavventure che si trova a vivere anche solo come testimone. Insomma questo romanzo finisce per essere un calderone di piccole storie e un affresco di un’umanità varia ma destinata a soccombere, o almeno a perdere le sue qualità propriamente umane.
L’autore aveva partecipato alla Guerra. Era stato sul fronte orientale ed era stato anche fatto prigioniero dai russi. Già la sua vita, insomma, offre uno spunto notevole di attualità. E, quando leggiamo ogni giorno sui giornali il problema (per l’Ucraina) dell’approvvigionamento di armi e di missili, viene spontaneo ricordar le parole con cui chiude il romanzo. Alla fine l’unica cosa che rimane di umano nella guerra è l’amore patrio e la fedeltà. Doti che però non riescono a cancellare i devastanti effetti della cieca (e inutile) violenza.
Ps
Il romanzo fu pubblicato per la prima volta in Italia dalla Cooperativa del libro popolare nei primi anni Cinquanta. Edizione poi ripresa da Feltrinelli. Il suo pacifismo era considerato “pericoloso” e non solo nell’Italia del regime ma anche in buona parte dei Paesi dell’est europeo (Cecoslovacchia compresa). Mentre consultavo il Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi (uscito subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale) mi sono imbattuto in questa frase: “La sua (del romanzo, ndr) fama ha tuttavia varcato i confini della patria: il romanzo è stato tradotto in quasi tutte le lingue europee (non in italiano) e perfino in Giappone”. Leggere questa frase dopo aver finito di godere della storia di Scvejk è un piacevole cortocircuito.
Qualche progresso, insomma, sul fronte editoriale lo abbiamo fatto. Il dramma dell’Ucraina, però, ci dimostra che sul piano dei conflitti internazionali siamo ancora fermi all’attentato di Sarajevo di un secolo fa.