La corsa all’oro dell’intellettuale americano
Una visione d’insieme. E’ quello che ci vuole il più delle volte per tirare le somme di una lettura. Che si tratti di un racconto, di un’opera poetica o di un romanzo, l’essenziale è capire lo spirito che ha animato l’autore e l’idea che sta alla base del suo lavoro. L’idea d’insieme di Una nuova vita di Bernard Malamud (1961) la ricavo da una preziosa introduzione che arricchisce l’edizione che ho sottomano (Minimum fax, con la traduzione di Vincenzo Mantovani). A firmarla è un altro celebre scrittore americano: Jonathan Lethem. Per arrivare alla sua “visione d’insieme” è bene prima che introduca io stesso il romanzo. Coevo di altri due capolavori (Lasciarsi andare di Philip Roth e Revolutionary road di Richard Yates), Una nuova vita racconta la storia di Seymour Levin, un trentenne che ha già un passato di alcolismo. Levin lascia New York e la precarietà del suo ruolo di assistente universitario per trasferirsi in un college di una sperduta cittadina dell’Ovest (la contea di Cascadia, con le sue meraviglie naturalistiche). Siamo negli anni Cinquanta. E il sogno, manco a dirlo, di Seymour è di rifarsi una vita. Accetta il ruolo di assistente in un piccolo college agrario. Deve insegnare grammatica e composizione a ragazzi che come unica ambizione hanno quella di lavorare al fianco dei genitori nelle aziende agricole della zona. Deve ricostruirsi, Seymour, deve tenere lontano l’alcol, e sogna un futuro molto borghese: una casa, una famiglia un lavoro dignitoso a vocazione sociale. Ovviamente la provincia non ha nulla a che fare con la metropoli che ha abbandonato. Si tratta di luoghi dove il provincialismo e l’ipocrisia bigotta sono i punti cardinali dell’orientamento collettivo. Inutile andare avanti: anche il lettore meno avvezzo (il topos dell’insegnante di college che si trasferisce in una lontana provincia è molto sfruttato dalla letteratura e dal cinema americano) può intuire come andrà a finire. Qui, però, abbiamo uno scrittore di vaglia. Malamud sa costruire con intelligenza e spietatezza tutte le tappe del viaggio purgatoriale di Seymour. E i personaggi che incontra sul suo cammino rappresentano delle maschere perfettamente aderenti ai modelli reali. A questo punto posso tornare sulla visione d’insieme regalatami da Lethem. Il genere in cui si inscrive questo romanzo, secondo Lethem, è il western. E in effetti ci sono grandi analogie. Nei classici western lo straniero arriva in un città che ha regole e comportamenti che gli stanno stretti. E’ sicuramente animato dalla sete di giustizia e di riscatto ma si scontra con una società chiusa. Chiusa e retriva, probabilmente e il più delle volte. E che nella maggior parte dei casi soccombe di fronte alla bontà delle intenzioni del nuovo venuto. E’ un’epica, questa del western, che è servita per dare lustro alla corsa all’Ovest. Affinché questa banalissima corsa all’arricchimento fosse mascherata con i più positivi principi della nuova frontiera, del nuovo mondo, dell’uomo nuovo. Insomma di un rinascimento in salsa barbeque. Malamud, però, rovescia il genere. Ed è ovvio che qui siamo alla grande letteratura. Lui, Seymour, soccombe agli occhi del lettore. E i modelli negativi dei provincialotti ipocriti nascondono verità e rivalse sociali altrettanto valide delle sue. Insomma, non basta essere un ex alcolizzato, amante della letteratura e cresciuto a New York per essere depositario della verità. La vita vissuta, fuori da ogni astrattismo intellettuale, regala verità sempre sorprendenti. E non sempre politicamente corrette.