Il mormorio notturno di Cormac McCarthy
Quando ho finito di leggere l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy Il passeggero (Einaudi, con la traduzione di Maurizia Balmelli) mi è venuta in mente una fotografia che recentemente avevo visto sui social. Una fotocomposizione dove compariva i quattro di Liverpool con una scritta sopra la loro testa che recitava così: Sorry for raising the bar to high. Quella frase mi è infatti sembrata adattissima per McCarthy. O meglio per questo suo nuovo romanzo (prima parte di un lavoro che si completerà a settembre con la pubblicazione di Stella Maris). L’autore americano ha infatti posto decisamente troppo alta l’asticella. E per un lettore senza molti mezzi interpretativi come me Il passeggero è risultato un ostacolo davvero arduo da superare. Così difficile ne risulta la lettura che anche un breve riassunto diviene cosa tutt’altro che agevole. Sappiamo che il protagonista del romanzo si chiama Bobby Western. Siamo negli anni Ottanta e il nostro vive nel Mississipi dove campa lavorando come sommozzatore di recupero. Il passeggero del titolo è un punto interrogativo. Dal momento che è il “passeggero mancante” di un aereo misteriosamente inabissatosi a poche miglia dalla costa. La trama è un esile canovaccio: si intuisce che c’è qualcuno che non vuole sciogliere il mistero del passeggero scomparso e che è disposto anche a sbarazzarsi di Western se necessario. Qui ovviamente McCarthy propone il classico plot dell’uomo in fuga. E le peripezie di Bobby sono intervallate da alcuni quadri (scritti in corsivo) che hanno per protagonista la bellissima Alicia. Lei è o meglio era la sorella minore di Bobby. Suicida adolescente, pur avendo davanti un brillantissimo futuro di matematica geniale. Entrambi sono figli di un fisico che ha partecipato al cosiddetto “Progetto Manhattan”. Sono insomma anche loro figli della bomba nucleare che ha vaporizzato centinaia di migliaia di persone a Hiroshima e Nagasaki. I capitoli di Alicia sono in corsivo perché serve dare al lettore un minimo di aiuto per capire che ciò che sta leggendo (e quindi vivendo di riflesso) non è qualcosa di reale. Piuttosto la proiezione di una mente schizofrenica. O forse semplicemente una lunga sequenza onirica. Non c’è pericolo di svelare il finale. Qui non c’è nessuna sorpresa. Il nostro protagonista resta vivo anche oltre l’ultima pagina del libro, nel suo esilio europeo in un lontanissimo rifugio perduto in una delle più belle isole Baleari.
Quello che ci preme ora è tentare di descrivere “tutto il resto”. Il romanzo, infatti, non segue una sequenza narrativa. Salta di luoghi senza un nesso apparente e i dialoghi tra i personaggi spesso sono fin troppo allusivi chiedendo al lettore un’attenzione davvero granitica. Perché ci sono digressioni che riguardano la fisica e la matematica. Ma anche dissertazioni di meccanica e di filosofia teoretica. Con conclusioni che vanno a incidere puntualmente sulla vita dei personaggi coinvolti nella storia. D’altronde, negli ultimi anni McCarthy ha frequentato il Santa Fe Institute, un istituto di ricerca teorica del New Mexico dove scienziati di varie aree del sapere scientifico studiano la matematica e la fisica utilizzando metodi interdisciplinari. Qui McCarthy ha analizzato il senso stesso del linguaggio nelle sue più diverse applicazioni. E ha fatto di questo studio la materia stessa de Il passeggero e Stella Maris.
Ho scorso qualche critica al romanzo. Mi è stata utile anche una sorta di mini-rassegna delle recensioni americane apparsa su Il Post. E poi altrettanto illuminante il lungo articolo di Nicola Lagioia apparso sulla rivista on line Lucy dove Lagioia evidenzia che ne Il passeggero l’autore suppone che “l’inconscio sia un sistema biologico, mentre il linguaggio no”. McCarthy avanza anche l’idea – sempre secondo Lagioia – che “il linguaggio potrebbe aver infestato le nostre menti. Simile a un’invasione parassitaria venuta dall’esterno, potrebbe essersi impiantato a un certo punto nel cervello umano, il quale non era pronto ad accoglierlo, e non ne stava pianificando l’arrivo. Il linguaggio è tuttavia uno strumento potente. Difficile rinunciarci, una volta intuiti i suoi vantaggi. Questo non toglie che dal momento del suo arrivo, tra inconscio e linguaggio sia cominciata una coabitazione difficile. È forse a questa complicata convivenza che abbiamo dato successivamente il nome “homo”. Insomma l’ultimo romanzo del celebre autore americano (già conosciuto per tanti capolavori come La strada, Suttree, Non è un paese per vecchi, Trilogia della frontiera) mette in discussione il linguaggio stesso nel suo rapporto non mediato con l’inconscio.
Ed è a questo punto che torno sulla suggestione iniziale. McCarthy ha alzato troppo l’asticella. Almeno per un lettore come me. Che quindi si arrende e aspetta ulteriori testimonianze di lettura e di esegesi. D’altronde la frase Sorry for raising the bar too high non è destinata soltanto a chi cerca di eguagliare i Beatles in bravura ma, nel caso dell’opera letteraria, serve anche per compiangere i lettori incapaci di seguire l’autore su percorsi finora inesplorati.
A questo punto bisogna soltanto attendere il verdetto del tempo. E vedere se arriverà prima o poi la consacrazione a classico di un’opera geniale, suggestiva ma ardua. Un po’ come è successo al joyciano Finnegan’s wake. Del quale nessuno discute il valore e l’aura di classico, pur non essendo uno di quei titoli che ci si passa col semplice passaparola. E le premesse ci sono tutte. Almeno stando ad alcune entusiastiche recensioni come quella di Dwight Garner sul New York Times (citata con altre nella quarta di copertina dall’editore italiano): “Altri scrittori saccheggeranno queste pagine per farne epigrafi, quasi fosse l’Ecclesiaste, per i prossimi 150 anni”. Inizio io a tirarne fuori un paio per dare un saggio della ricchezza di questo testo: “La sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla. L’infelicità è una scelta” e “Cosa siamo noi? Dieci per cento biologia, novanta per cento mormorio notturno”.