Bouvard e Pecuchet? Efficienti bodyguard
Su una cosa possiamo star certi: prendete uno scrittore, non uno qualsiasi ma uno di vaglia, uno capace non soltanto di usare al meglio le parole ma anche di scendere in profondità per scandagliare il “nascosto” che c’è dentro di noi e per tirarne fuori i caratteri universali che tutti ci comprendono, prendete questo scrittore – dicevo – e spingetelo dentro un’avventura, una situazione anomala, una condizione fuori dal comune. Questo scrittore sarà sicuramente in grado di scriverne. Non, però, per trarne un vantaggioso instant-book di autofiction. Bensì per capire cosa c’è dietro quel fatto e quanto quel fatto sia in grado di modificarlo, o almeno di modificare le sue aspettative future. Ne uscirà fuori un testo letterario che di certo val la pena leggere.
E’ il caso, a esempio, di Knife (Mondadori, traduzione di Gianni Pannofino) di Salman Rushdie. Il libro racconta l’ultimo anno di vita dello scrittore di origine indiana da quando è stato vittima di un attentato. Era il 12 agosto del 2022. Rushdie era sul palco dell’auditorium di Chautauqua nello stato di New York. L’aggressore, un ragazzo ventiquattrenne di origine libanese, ha colpito più volte lo scrittore inglese con un coltello da cucina.
Rushdie ha perso un occhio e l’uso della mano sinistra. E il libro racconta, tra l’altro, anche il suo lento e doloroso recupero. In mano a uno scrittore, tuttavia, questo materiale esce dai confini strettamente biografici e ci consegna domande (e risposte) che riguardano tutti noi.
A esempio il rapporto tra dogma e letteratura. Rushdie si aggrappa alla saggezza di Flaubert e al suo capolavoro Bouvard et Pecuchet. “L’arte sfida l’ortodossia – scrive -. Ripudiare o svilire l’arte per tale ragione significa non aver capito la sua natura. L’arte pone in conflitto l’appassionata visione personale dell’artista con le idee ricevute della sua epoca. L’arte sa che le idee ricevute sono sue nemiche, come ci dice Flaubert. Gli stereotipi sono idee ricevute, così come le ideologie, sia quelle che dipendono dall’approvazione di invisibili divinità celesti sia quelle che ne fanno a meno. Se non ci fosse l’arte, la nostra capacità di pensare, di vedere con occhi diversi e di rinnovare il nostro mondo appassirebbe e morirebbe”.
L’attacco violento contro una voce libera e contro l’espressione di libertà di pensiero, tra l’altro, non sopravvive al pensiero che si vuole eliminare. E la storia della letteratura, ci ricorda lo stesso autore dei Versetti satanici, è piena di esempi. “L’arte sopravvive a chi la uccide”. La poesia di Ovidio è sopravvissuta all’Impero romano, quella di Osip Mandel’stam a Stalin, così come quella di Federio Garcìa Lorca al potere franchista.
Questa verità universale poi si correda dello specifico esempio dell’attacco subito da Rushdie stesso che con un pizzico di sarcasmo beffardo sottolinea, in un immaginario dialogo con il suo assalitore. “Le nostre vite sono entrate in contatto per un istante, poi hanno subito cominciato a divergere. La mia è migliorata, da quel giorno mentre la tua è peggiorata. Hai fatto una pessima scommessa e l’hai persa. La fortuna è toccata a me”.
L’assalitore, infatti, sta scontando una lunga detenzione in un carcere mentre lo scrittore inglese non solo ha potuto tornare alla vita e a godersi l’affetto di familiari e amici, ma è anche tornato a scrivere.
La grande conquista, però, arriva a fine libro. Quando l’autore – in piena autoanalisi – ci svela che la sua vita è ovviamente cambiata da quel giorno (d’altronde capita a tutti la stessa cosa quando un incidente o una parentesi di dolore ci fanno apprezzare di più ciò che abbiamo rischiato di perdere) ma non altrettanto può dirsi per la sua arte. Come non è schiava delle idée reçues così non è condizionata dalla violenza. “Lo stile, la forma, il linguaggio di qualsiasi progetto letterario – spiega – sono determinati dalle specifiche esigenze di quel progetto e possono variare da libro a libro, passando dal barocco al minimalismo… Non vedo come un atto di violenza come quello da me subito possa dare un contributo alla creazione artistica”. A questo punto l’autore tira in ballo proprio i tanto discussi Versetti satanici (pubblicati 1989) e prova a immaginare un lettore (magari giovane) che nulla sa della fatwa subita dall’autore e del suo lungo esilio dalla vita sociale proprio a causa delle minacce subite. Se questo lettore – suggerisce Rushdie – leggesse in ordine cronologico i romanzi scritti dopo il 1989 non gli verrebbe mai da pensare che in quell’anno, nella vita dello scrittore, sia successo qualcosa di catastrofico.
E’ la vittoria dell’arte sulla violenza ma anche della vita sull’ideologia. Knife non è un romanzo, ma ha tutta la forza e la suggestione di un grande racconto. In questa cronaca di un anno vissuto a recuperare forze e volontà Rushdie ci offre potenti osservazioni sul mondo, sulla vita di uno scrittore e sull’amicizia. Toccanti, a questo proposito, i ritratti di Martin Amis e di Paul Auster, amici e colleghi scomparsi proprio l’anno scorso.
Tra una citazione di Shakespeare e un ricordo di Samuel Becket questo racconto accompagna il lettore in un breve ma intenso viaggio alla scoperta delle reali funzioni della letteratura, unico antidoto al pensiero unico e alla violenta sopraffazione delle idee.