Caterina e la devozione del lettore
Chissà se qualche critico di vaglia o qualche illustre accademico abbia studiato la devozione del lettore nella letteratura. La ricezione letteraria ha avuto un discreto successo nell’ultimo scorcio del Novecento. Eppure, anche in quel campo si dice poco della “devozione” del lettore. Quel sentimento, o disposizione d’animo, che è direttamente correlata alla produzione di un determinato scrittore.
Quando una poetica, uno stile, le tematiche scelte e affrontate, tornano come una rassicurante promessa mantenuta, il lettore non se ne compiace e basta. Il lettore mette la sua passione in quelle parole nelle quali ritrova il mondo che aveva accantonato – ma solo momentaneamente – al termine della lettura del precedente lavoro.
Ogni opera parla per sé, sia ben chiaro. È però altrettanto assodato che ci sia comunque un filo comune che lega insieme le perle dell’autore e chi le ha passate tutte (le perle) al tatto, chi le ha sottomesse al vaglio dei propri occhi si accorgerà che raccontano tutte insieme una sola grande storia.
Il lettore “devoto”, infatti, gode nel ritrovare i medesimi meccanismi narrativi, lo stesso stile, personaggi nati dagli stessi ambienti e si compiace di trovarsi come a casa in queste stesse cornici sociali.
Leggendo Tanto poco, l’ultimo romanzo breve uscito dalla penna di Marco Lodoli (e come i precedenti pubblicato da Einaudi), mi sono reso conto di essere appunto un lettore devoto. Così devoto che sono caduto nella tentazione di assegnare ai due protagonisti di questa storia (il professore e la bidella) due ruoli simbolo: da un lato l’autore e dall’altro appunto il lettore devoto.
Serve ovviamente una breve introduzione per consentire al lettore di questo blog di cogliere il senso del mio ragionamento. Durante il suo primo anno di servizio come bidella di una scuola di periferia la protagonista fa la conoscenza di Matteo. In quel giorno di pioggia lo scambia per uno studente ritardatario e invece in quella stessa scuola lui inizierà la carriera di professore di italiano. Si chiama Matteo, ha l’aria svagata e una testa coperta di ricci ribelli. Gli anni passano e il prof acquista una momentanea fama per un romanzo generazionale. Di lei, invece, non veniamo a sapere nemmeno il nome autentico. Lui – per sbaglio – la chiama Caterina e quel nome sbagliato sarà l’unico modo con cui la saluteremo a fine storia. Le stagioni trascorrono e le loro due vite sembrano allontanarsi sempre di più. Lei chiusa nel suo isolamento sociale, lui perso nelle sue ambizioni frustrate e nella sua ancor più frustrante vita matrimoniale. La parabola ha il suo punto terminale nella caduta di Matteo, nel fondo toccato da un “artista” che non si sente riconosciuto. Un marziano che nemmeno Flaiano avrebbe consolato. Solo lei, solo “Caterina”, rimane fedele al suo amour de loin. Quando la caduta sarà senza riscatto è il momento in cui Caterina prova ad abbattere quella barriera che fin lì l’ha tenuta separata dal suo grande e unico amore.
Il lettore devoto di Lodoli non può fare a meno di notare le grandi somiglianze tra il prof Matteo e il suo autore. E l’amore che per lui coltiva Caterina altro non è che la devozione di un lettore che ne segue a passo a passo la parabola artistica e che delle sue storie popola i propri sogni.
“Ma certo che lo so, la vita è cambiamento, è una cosa strana che si deve trasformare di continuo per non seccarsi, acqua che scorre, che schiuma, che irriga, che fugge verso il mare…. Ma io sono stata sempre qui, ferma, radice, piantata in una devozione che forse è amore e forse è solo paura. Eppure anche ora che mi vedo invecchiata, che intorno agli occhi ho una ragnatela di piccole rughe e in bocca meno denti, anche ora non ho rimpianti”. Sono le prime parole del libro. Le prime parole di “Caterina”. Sta descrivendo la sua impotenza e il suo destino, ma anche il suo ruolo di lettrice. Di osservatrice. Che si accontenta di vivere di riflesso.
Come nei precedenti romanzi, Lodoli sfrutta quella lingua cristallina ma puntuta che per brevi accenni sa offrire squarci fedeli dell’inferno interiore e della povertà esteriore dei personaggi e dei luoghi. Il racconto ha il ritmo del sogno e del sogno riprende quel lento ma inesorabile scivolamento verso i contorni dell’incubo. Se all’inizio del romanzo gli occhi di Caterina osservano e ci restituiscono un mondo plausibile, nelle pagine conclusive quello sguardo perde progressivamente limpidezza. I contorni si fanno meno netti proprio quando i sentimenti si fanno più intensi e le emozioni più forti.
Alla fine, quello che ci rimane è una promessa mantenuta, una devozione giustificata.
