Ogni tanto abbiamo bisogno di staccare. Chi sceglie di leggere romanzi importanti (quelli la cui lettura resta sempre valida anche a distanza di anni dalla loro pubblicazione) ogni tanto deve rivolgersi alla saggistica per avere suggerimenti, indicazioni e stimoli. Ed è con questo spirito che ho preso in mano l’ultimo libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (pubblicato da Utet). Il titolo non mi avrebbe intrigato abbastanza da prenderlo. Ci ha pensato il sottotitolo: “diario di un filorusso”. A quel punto ho capito cosa avrei trovato in quelle pagine. Conosco abbastanza il lavoro di Nori per sapere che avrei trovato le sue personali esperienze  riguardo alla censura e alla posizione che uno studioso di letteratura russa si trova ad avere da noi in questi anni difficili caratterizzati proprio da una guerra di cui la Russia di Putin è una delle protagoniste.

Si tratta di un sapido diario che parte dal momento in cui Nori si vede cancellare alcune lezioni su Dostoevskij che avrebbe dovuto tenere in un ateneo italiano all’indomani dell’invasione russa in Ucraina perché al momento “non opportune”. Da lì gli eventi precipitano e il suo diventa un “caso” di cui parlare e sul quale dividersi. Come ai tempi del caso Dreyfus (con l’ormai logoro, a furia di citazioni, J’accuse di Emile Zola).

Per fortuna Nori non è Pasolini, che su una simile censura avrebbe scritto articoli pesantissimi e durissimi. Nori è un emiliano di buon cuore e avvezzo all’ironia (anche all’autoironia). Si è messo di buzzo buono per raccontarci perché a dispetto di tutto dobbiamo sentirci “filo-russi” e lo fa ricordandoci che i ragazzi che vengono a studiare l’italiano o l’arte rinascimentale qui nel Belpaese non lo fanno perché sedotti dalle doti politiche di Paolo Gentiloni o Mario Draghi, bensì dalle imprese artistiche di personaggi come Machiavelli, Manzoni, Michelangelo e Botticelli.

Nori, tuttavia, non pontifica mai. E si mantiene sul proprio vissuto e sull’esperienza diretta. E ci ammalia e ci commuove e ci spinge a correre immediatamente in libreria a fare incetta di Gogol, Checov, Tolstoj, Achmatova, e ovviamente Bulgakov e Dostoevskij. Ci dice che è grazie al Maestro e Margherita che ha potuto conoscere “uno dei personaggi più belli del Novecento”, che poi è il diavolo. E quello che dice del romanzo di Bulgakov mi commuove e mi stordisce. Mi commuove perché scopro che mi trovo a condividere con Nori le stesse esperienze emotive nella lettura del romanzo. E mi stordisce dallo stupore perché racconta che quando è arrivato per la prima volta a Mosca ha voluto subito recarsi agli stagni Patriarsie. Che è poi la stessa cosa che da oltre trent’anni mi riprometto di fare qualora riuscissi ad andare nella capitale russa. Perché è proprio in quel giardino moscovita che si apre il romanzo, con una scena a dir poco memorabile. Tanto che basterebbe già la lettura delle prime venti pagine per arrivare alla granitica certezza di trovarsi di fronte a un capolavoro.

A Nori gliene succedono di tutti i colori con la storia della “censura”. Cosa che da noi fa è più comica che tragica. Soprattutto se si parla di Dostoevskij. Nori non affronta la questione di petto. E nemmeno ex cathedra. Scende al nostro livello e pazientemente ci ricorda che la censura, quella vera, sta in Russia, dove c’è sempre stata. Ma che, per fortuna, le leggi della letteratura sono ben lontane da quelle del potere. E i casi di capolavori nati dal martirio in Unione Sovietica sono numerosi. Tra i tanti ci ricorda la vita di Anna Achmatova, tanto esemplare e struggente da avergli dato la forza di trasferirla di peso in un romanzo (Vi avverto che vivo per l’ultima volta, Mondadori).

Essere vittima dalla censura da noi, invece, ha tutt’altro sapore. Alla fine di tutto, Nori si considera pure fortunato perché il clamore creato intorno al caso del Dostoevskij “censurato” ha allargato in maniera esponenziale il parco dei lettori di Nori. E ha riempito la sua agenda di impegni, letture, incontri e – appunto – lezioni. A tal proposito Nori cita Kurt Vonnegut e il suo senso di colpa per aver sfruttato il drammatico bombardamento di Dresda per Mattatoio n.5. Nell’introduzione al suo romanzo Vonnegut, infatti, spiega: “L’atrocità di Dresda, tremendamente costosa e meticolosamente programmata, fu così insensata che solo una persona sull’intero pianeta ne ricavò un qualche beneficio. Io sono quella persona. Ho scritto questo libro, che mi ha fatto guadagnare un mucchio di quattrini e che ha fondato la mia reputazione, quale che sia. In un modo o nell’altro, ho preso due o tre dollari per ogni persona uccisa. Bel mestiere il mio eh?”

Il senso di colpa, il buonsenso, il tragico paradosso sono alcune delle tappe che portano Nori a convincerci che la Russia va amata e che prendere in mano i classici della sua letteratura è sempre un’azione proficua. “I russi – confessa Nori – mi piacciono non in quanto cittadini della Federazione Russa, ma in quanto persone, perché voi avete un modo di stare al mondo, un modo di aiutarvi tra di voi, un modo di dirvi quanto vi volete bene, una capacità di manifestare i vostri sentimenti che noi, in Occidente, ce lo scordiamo”.

Non dobbiamo insomma preoccuparci di chi governa un altro Paese. Almeno non quando siamo intenti a sfogliare lo scaffale della letteratura di quel Paese. Nei libri di Storia possiamo incontrare gli statisti (buoni o cattivi) ma nella letteratura incontriamo gli uomini. Ecco perché la censura e la partigianeria, quando parliamo di letteratura, sono categorie inutili.  Il celebre teorico della letteratura Viktor Sklovskij una volta scrisse: “Se invece di cercare di fare la storia, cercassimo semplicemente di essere responsabili per i singoli eventi che la compongono, forse non ci renderemmo ridicoli. Non la storia si deve fare, ma una biografia”.  E alla fine di tutta questa faccenda Nori trae una sorta di morale prendendo in prestito proprio la saggezza di Sklovskij: “Ecco io, e tutti noi, secondo me, abbiamo questo impegno terribile: fare la nostra biografia”, senza farci imprigionare dalle gabbie mentali che confondono le persone con i loro governi, i libri scritti in una lingua con i proclami e gli ordini guerreschi pronunciati nella stessa lingua.

 

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