Quanto sono romantici gli autostoppisti di Kerouac
La prima volta che ho letto Sulla strada di Jack Kerouac ero un adolescente sul quale faceva presa il mito della frontiera americana, del viaggio e dei primi hippies. In fondo erano gli anni Settanta e un simile “diario” agli occhi di uno sprovveduto adolescente poteva tranquillamente passare per romanzo di formazione (anche senza un lieto fine e una morale da sfoggiare). Di quella lettura ovviamente non mi è rimasto molto. Oltre alla voce narrante (Sal) e alla figura di Dean Moriarty, ricordo le lunghe strade americane e i passaggi raccattati al volo sul pianale di scassati furgoni, stretti a fianco di hobos che giravano l’America senza un perché e senza una meta.
Ci sono ritornato su da poco. Più o meno dall’insediamento di Trump. La speranza era di trovare nelle pagine del celebre romanzo qualcosa che mi aiutasse a capire l’America di oggi. Tentativo fallito. O forse riuscitissimo. Fallito perché la mia lettura “adulta” mi ha aiutato a capire le ragioni di questo romanzo, che risiedono tutte nello squadernare davanti al lettore delle “cause” o delle ragioni del lavoro dello scrittore: stupefazione nei confronti della realtà e amore per la vita. Un romanzo, quindi, che si sarebbe potuto ambientare anche nella nostra Europa o magari in India (che già allora era di moda tra i new bohémien a stelle e strisce). Forse, però, potrei considerare utile la lettura Sulla strada ai fini della comprensione del genius loci di Trump e Musk in considerazione di quel tasso di naïveté e semplicità che risiede praticamente in ogni americano che non sia stato allevato nelle università dell’Ivy League sulla costa orientale. I protagonisti vivono alla giornata e di facili espedienti. Disposti a lavori faticosi o umilianti soltanto per il tempo necessario a raccogliere i soldi per un passaggio in pullman o in treno verso Ovest, verso la tanto idealizzata California. Oggi di quel romanzo restano soprattutto le descrizioni meravigliate e appassionate della natura umana, pescata non nei salotti di Manhattan ma nelle periferie operaie di Chicago o tra i braccianti messicani del Texas nell’immediato dopoguerra (questo anomalo diario di viaggio è d’atto 1949).
Siamo lontani, però, da quei dibattiti tutti nostrani sul superamento del neorealismo, qui l’involucro grottesco dei personaggi vuole renderli indimenticabili grazie alla loro maschera di ingenua spontaneità. Quasi dei folletti con il cuore di bambino. Magari dispettosi ed egocentrici, ma pur sempre bambini.
Quella vita bohémien, anti borghese, da nomadi e da irregolari stride un po’ con le paturnie e le decisioni impulsive dei protagonisti, sempre pronti a sfidare la sorte correndo spericolatamente al volante di grosse auto scassate o a sfidare la tenuta del fegato con bevute interminabili.
Si è detto che il successo del romanzo, uscito nel 1957, è dovuto soprattutto al suo essere la prima chiassosa e clamorosa sfida all’american dream postbellico incarnando quella marginalità resistenziale quale unica forma di opposizione al potere costituito. L’ineludibile bisogno di ribellione diventerà da lì a pochi anni la cifra della cultura giovanile. Sulla strada regge la sfida del tempo e resta seducente ma solamente per la disperante e disperata ricerca di autenticità dei sui protagonisti. Ben più urgente e più toccante di quella che alimenterà l’onda sessantottina. Quei toni romantici e a volte melodrammatici ci ricordano però che la vita è una commedia dolceamara pur se bruciata sulla Route 66 facendo l’autostop.