Avete presente Robert Redford in quel film di Sidney Pollack? Quel film dove il bel biondino ancora trentenne veste jeans e cravatta sotto il maglione di lana grezza e lavora per un oscuro ufficio dietro il quale si nasconde uno dei tanti servizi della Cia? Già, aveva anche un nome in codice. Anche se non lo usava mai. E quel nome era Condor. Avete indovinato! Stiamo parlando de I tre giorni del Condor.

Perché qui? Perché in un blog che parla di libri? Semplice! Perché quel film, oltre a essere un thriller mozzafiato, così ben curato, scritto, montato, recitato da reggere alla grande la prova del tempo (il prossimo anno spegnerà quaranta candeline), è anche uno dei più efficaci spot sul valore della lettura. Secondo me il ministro dell’Istruzione dovrebbe farne fare un gran numero di copie e distribuirle a tutte le scuole del Belpaese. Con una sola raccomandazione per i professori (cinefili e non): “Fatelo vedere a tutti quei ragazzi che si mostrano riottosi alla lettura”.

E il motivo è presto detto. Che si tratti di un bel thriller, ben girato e ben recitato l’abbiamo già detto. Ma tutti i film (come tutti i libri e tutte le opere di ingegno in generale) hanno sempre più di un messaggio da veicolare. E non sempre quelli “secondari” sono stati immaginati con lucida precisione dai loro stessi autori.

Nel nostro caso il messaggio “secondario” è il valore della lettura. Un bene che non è soltanto fine a se stesso. La lettura – questo il senso della morale che si ricava dalla visione del film seguendo questa analisi – non serve per diventare “acculturati”, non serve per pavoneggiarsi con pose da intellettuali di fronte a chi non ha avuto il nostro stesso privilegio. La lettura è utile per imparare a vivere. L’esperienza mediata si fa bagaglio teorico e tecnico che, un domani, può risultare utile.

Il nostro personaggio, il Condor del titolo, è un semplice topo di biblioteca. Non sa usare la pistola, non ha ricevuto alcun addestramento specifico. Non si è mai allenato al corpo a corpo delle arti marziali. Passa la sua vita chiuso in un oscuro ufficio di Manhattan a leggere libri. Quali? I più diversi. I più disparati. E lo fa soltanto per la pur vaghissima ipotesi che possano contenere messaggi cifrati. Già questo la dice lunga sull’inutilità del suo lavoro. Eppure Condor legge. E legge soprattutto con profitto e con entusiasmo.

Però qualcosa va storto. Il suo ufficio viene visitato da killer privi di scrupolo che compiono un’autentica carneficina. Ammazzano tutti i suoi colleghi. Lui viene risparmiato più dal Fato che dall’imperizia dei killer. Il nostro Condor biondo e belloccio ci mette poco a capire che non soltanto ha mezza Cia alle costole ma che anche pericolosi killer di “caratura internazionale” gli sono dietro. Deve fuggire, non ha soldi, non ha una casa, non ha amici e soprattutto è inseguito da tanti assassini di professione. In una simile condizione chiunque soccomberebbe. Non lui. Non soltanto perché è il nostro eroe buono e valoroso (che tra le altre incombenze ha anche l’imperativo morale di far innamorare di sé una bellissima Faye Danaway). Ma soprattutto perché la lettura di centinaia di libri di spionaggio e di gialli (anche di quelli più dozzinali) lavora nella sua mente per offrigli soluzioni, suggerimenti, stimoli.

Una volta Umberto Eco ha scritto: “Chi non legge, vive una sola vita”. Ebbene la testa del Condor è un magazzino pieno zeppo di vite, di esperienze mediate, che, all’uopo, diventano merce preziosissima. Ben più efficaci di qualsiasi arma letale. Il bel Robert/Condor riesce a districarsi in giungle e paludi mortifere con l’agilità di chi ha alle spalle anni e anni di gavetta nella Legione Straniera. Grazie alla capacità di analisi che gli deriva da anni di studio ma soprattutto dai tanti suggerimenti che la lettura offre come “esperienza virtuale”.

Per il prossimo anno il Miur potrebbe proporre tra i titoli di testo “obbligatori” anche la visione di questo film. Una grande pubblicità progresso in versione film d’autore.

 

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