Compton-Burnett e la crisi della famiglia “tradizionale”
Mi piacerebbe utilizzare la macchina del tempo. Mi piacerebbe utilizzarla per far tornare qui da noi la signora Ivy Compton Burnett. Sì, lei, la famosa scrittrice inglese. Sì, l’autrice di tanti romanzi. L’unica scrittrice nei confronti della quale Virginia Woolf nutriva un chiaro sentimento di invidia (professionale, ben s’intende). Mi piacerebbe poterla reclutare. E spedirla a Verona. Ovviamente la macchina del tempo dovrebbe anche sistemare questo piccolo ritardo e farci tornare indietro di un paio di settimane. Mi piacerebbe insomma reclutare la signora Compton Burnett per farle seguire il convegno sulla famiglia che si è tenuto nella città veneta. Mi piacerebbe insomma che dalla sua penna (caustica ed elegante, ironica e mai fuori misura) uscisse un’adeguata cronaca dei lavori di quell’assise dove si sono lanciati strali di ogni tipo all’indirizzo di tutto ciò che non è – a loro detta – naturale. La famiglia è una e una sola. Un madre e un padre e tanti (possibilmente) figli non solo naturali ma anche nati nel vincolo del matrimonio religioso. Mi piacerebbe capire cosa avrebbe da dire e da ridire un’autrice come la signora Compton Burnett, che ha passato la vita a scrivere romanzi in cui tutti gli aspetti dei legami familiari e delle relazioni affettive sono stati messi sotto la lente di ingrandimento della sua acuta sensibilità e della sua profonda intelligenza. Lei saprebbe senz’altro trovare le parole più adatte per descrivere il fanatismo e la miopia di scelte che ai più sono sembrate fuori dalla Storia. D’altronde in questi giorni è tornato nelle nostre librerie uno dei suoi più conosciuti romanzi: Più donne che uomini (Fazi editore, traduzione, ottima peraltro, di Stefano Tummolini). Un romanzo uscito per la prima volta nel 1933 e nel quale le relazioni affettive e i vincoli familiari vengono declinati in tutte le forme possibili. Una grande varietà di “legami” che non fanno della piccola e chiusa comunità del collegio femminile, gestito dalla signora Josephine Napier, una sorta di comune libertaria e promiscua. Al contrario: l’ordine, l’etichetta e il decoro nella scuola della Napier non sono categorie astratte. E il pudore e il senso della misura sono senz’altro gli assi cartesiani del comportamento di tutti i personaggi della storia. Una storia, quella del romanzo, che si offre come tributo della sua protagonista: “un generale ingioiellato, alta e austera, vestita e pettinata in modo da esibire i suoi anni, anziché nasconderli”. Intorno a lei troviamo un marito (Simon), un figliastro (Gabriel), un fratello omosessuale (Jonathan Swift) e ovviamente le insegnanti (giovani o meno giovani) dell’istituto. Al gruppo si unisce anche Elisabeth, vecchia amica di gioventù alla quale aveva portato via il pretendente. E la figlia di quest’ultima: Ruth. Un secondo tragico lutto fa precipitare i rapporti (sempre molto formali e compunti) degli inquilini del collegio. E colpi di scena e agnizioni aiuteranno a rendere più sapide le relazioni tra i vari personaggi. Dietro il rigore della signora Napier, però, è facile vedere la tolleranza frutto di una sapienza forgiata al fuoco dell’esperienza. E il dialogo con il figliastro Gabriel riguardo al marito appena spirato è significativo a questo riguardo. “Non ricordo un solo attimo di tenerezza, tra te e tuo marito, che possa essermi di esempio” dice il giovane che sta per sposarsi. “Davvero caro? Non ricordi?” le chiede lei. “E ti pareva poco, quel sentimento che ci vedevi vivere ogni giorno? Quell’affetto monotono, ostinato, che avevi sempre sotto gli occhi? Credi che a un matrimonio si possa chiedere di più?” Eccolo qui il pessimismo (come l’hanno etichettato gli storici della letteratura) della Compton Burnett. Quella capacità tutta sua di raffreddare ardori e romanticismi di ogni sorta. Però il rispetto e la tolleranza (soprattutto in questo romanzo) sono una felice cornice. E, credo, hanno molto da insegnare anche ai militanti della famiglia tradizionale.