Tondelli, Ligabue e la fine del mondo
L’ho scelto per caso. Non avevo letto molto di suo. E sicuramente non questo romanzo. Pescando dallo scaffale la bella edizione delle Opere di Pier Vittorio Tondelli (1955-1991) nei Classici Bompiani (con la puntuale e garbata cura di Fulvio Panzeri) la scelta è caduta proprio su Rimini. E’ stato il suo penultimo romanzo ma anche quello che gli ha regalato a un tempo maggiori soddisfazioni per il successo di pubblico e maggiori amarezze per la tiepida accoglienza della critica.
Comunque già il tema del racconto è invitante per chi da più di un anno non va al mare e non fa una vita normale e spensierata a causa del Covid. Tondelli, infatti, immagina (siamo alla metà degli anni Ottanta) un giovane e ambizioso giornalista milanese cui viene dato il compito di scendere a Rimini e di curare (per tutta l’estate) un’edizione locale da associare al quotidiano nazionale.
Espediente narrativo che solo all’inizio sembra naif. La descrizione del mondo giornalistico sicuramente è fin troppo schematica ma con lo scorrere delle pagine si intuisce che quella continua ricerca della notizia, della curiosità, dell’imprevisto, propria di chi per vivere fa la cronaca del reale, è un’utile metafora per il ruolo che lo scrittore si è qui assegnato.
Non ci troviamo di fronte al classico “bestiario” da spiaggia con tic, vezzi e mode dell’italiano (o del turista) in vacanza. Se anche le mode vengono descritte (se pur sommariamente), se anche i tipi da spiaggia e da discoteca vengono tratteggiati con sapiente gusto e con una lieve patina di divertita parodia, il romanzo cerca invece di fotografare un’epoca attraverso un racconto a tratti poliziesco e noir (lo stesso Tondelli ha indicato Raymond Chandler come un modello). Il linguaggio semplice, le descrizioni agili e veloci, l’osservazione esatta senza sbavature e senza cedimenti retorici, fanno di questo libro un modello a lungo seguito. E l’ambizione dello scrittore di Correggio (RE) non era da meno. “Voglio che Rimini sia come Hollywood, come Nashville, un luogo del mio immaginario, dove i sogni si buttano a mare, la gente si uccide con le pasticche, ama trionfa o crepa”.
La vena del grande scrittore però è più solida della sua stessa ambizione. E le vicende del carrierista Marco Bauer si incrociano con quelle di Renato Zarri (la cui amarcord familiare fatta di pensioni a gestione familiare e piccoli alberghi offre un ottimo spaccato dell’Italia del boom e della successiva età della recessione) e di Beatrix, antiquaria berlinese che arriva a Rimini in cerca della sorella tossica ma soprattutto di sé stessa.
Il cronista, nel corso del suo lavoro, si imbatte pure nella morte di un vecchio leader politico e da quel momento l’andamento del racconto accelera ai ritmi del poliziesco ma Tondelli non rinuncia a descrivere con sensibilità i riti mondani ed erotici, lo squallore e l’effimero di una società sempre più persa nell’edonismo corrivo di quegli anni. E sempre più frivola che si concede il brivido di prestare alle teorie campate in aria di una imminente fine del mondo, spacciata per imminente proprio in quella stagione.
L’unica scena corale del romanzo è proprio la veglia prima dell’Apocalisse. Con tutta la gente che si riversa in spiaggia o sul lungomare. In un crescendo di ritmo e di tensione. Solo allora mi sono risuonate nelle orecchie le parole di una canzone, il cui refrain ripeteva ossessivamente “a che ora è la fine del mondo?”. Chissà se l’associazione di idee è stata innocente o smaliziata. E, soprattutto, chissà se è stata provocata dal semplice fatto che Ligabue e Tondelli sono della stessa generazione ma soprattutto sono originari tutti e due di Correggio.