La fabbrica dei “like” ai tempi di Balzac
Coltivare speranze o cullare illusioni? L’ottimismo della ragione o l’impulsività del cuore? Fede o cieca ambizione? A scorrere l’affollata collezione di personaggi romanzeschi si è sempre preferito il primo polo di questo binomio. Non rare, però, le incursioni nel secondo. Che non di rado ci hanno regalato storie memorabili e personaggi esemplari. Come la spesso citata Emma Bovary. Di stretta attualità in questo momento il suo “collega” e connazionale Lucien de Rubempré. Il giovane e aitante protagonista di Illusione perdute lo troviamo, infatti, in questi giorni al cinema nella riduzione proposta da Xavier Giannoli. Il successo del film mi ha spinto a riprendere in mano il libro che Honoré Balzac ha scritto tra il 1837 e il 1843. Era stata un’appassionante lettura scolastica, ma ricordavo davvero poco della storia E soprattutto ricordavo poco della lunga e puntuale analisi che Balzac offre del mondo dell’informazione. A un liceale a digiuno di tutto, forse, quelle lunghe digressioni sul modo in cui veniva manipolata l’opinione pubblica parigina nella prima metà del XIX secolo dicevano poco. A un cronista con oltre trent’anni di lavoro alle spalle, invece, quel lucido affresco ha fatto un’enorme impressione. Chi scrive, infatti, ha ritrovato gli stessi difetti della stampa odierna. Le stesse piccinerie, gli stessi vizi e soprattutto gli stessi insuperabili limiti. Con un’aggravante – nel confronto – per l’informazione del XXI secolo: non è affatto migliorata, non ha usato tutto questo tempo a disposizione per progredire.
Il grande affresco di Illusioni perdute, però, non parla soltanto del giornalismo parigino. Balzac offre un preciso spaccato sociale. Con la sua penna graffiante e impietosa svela le miserie della nobiltà e dei circoli intellettuali, per non dire delle piccinerie della borghesia di provincia. E in più regala personaggi davvero indimenticabili. Su tutti prediligo la sorella e il cognato di Lucien. Eva e David Sachard. Loro non hanno abbandonato l’angusta Angoulême. Tentano di portare avanti l’azienda di famiglia (una tipografia), con esiti fallimentari. Nel frattempo, il piccolo tipografo ha abbandonato le tentazioni poetiche, coltivate ai tempi della scuola, per seguire una crescente curiosità scientifica. Cercherà per tutta la vita di trovare modi più economici ed efficaci di produrre carta, proprio in un periodo – la prima metà del XIX secolo – nel quale la carta equivaleva al silicio di oggi: un mezzo indispensabile per cavalcare la nascita dell’industria editoriale. Le illusioni perdute, alla fine, sono più le sue che quelle del bell’imbusto Lucien. Questi, infatti, sopravvive nella penna e nella testa di Balzac. Lo ritroveremo a Parigi per altre (e altrettanto tragiche) avventure in Splendori e miserie delle cortigiane (1838-’47). Quindi, quando si chiude il romanzo, il poeta ha ancora una chance di redimersi e di chiedere al destino nuove opportunità. Il povero David, invece, deve accettare soltanto di chiudere la sua partita con la scienza e con le invenzioni. Deve smetterla, come gli consiglia la devota e innamoratissima moglie, di andar dietro a chimere per restare con i piedi ben piantati per terra. Anzi, alla fine, i due baratteranno le macchine tipografiche già ipotecate per una piccola vigna (più “piedi per terra” di così!).
Insomma è la borghesia, ci dice Balzac, a vincere questa partita. E le speranze che coltiva le fonda su calcoli esatti. Non si fa illusioni. E quindi non perde nulla. Le fughe nella fantasia e nella più cieca ambizione le lascia a chi pensa di farsi strada con modeste poesie e pessimi romanzi storici.
Il libro è comunque di stringente attualità e il genio di Balzac si rivela proprio nella sua capacità di estrarre regole universali ancora valide per descrivere i meccanismi sociali e le forze che animano la vita interiore dell’uomo. Mi ha colpito, a questo proposito, una dichiarazione del disincantato Lucien. Siamo al punto in cui il giovane ha ormai capito come funziona la macchina che muove l’opinione pubblica nella tentacolare Parigi e rivolgendosi a un sodale esclama sconfortato: “È difficile avere delle illusioni su qualche cosa a Parigi. Su tutto c’è una tassa, si vende tutto, si fabbrica tutto, perfino il successo”. Oggi metterei in mano ai ragazzi questo libro per far capire loro come nasce la fabbrica del successo e quante dannose illusioni e false speranze produce nella mente di chi quel successo lo rinforza con un semplice like. Magari mi assicurerei di dar loro una traduzione aggiornata. L’edizione (Garzanti) che possiedo risale agli anni Sessanta e alcuni termini sfruttati dalla brava traduttrice di allora (Argia Michettoni) sarebbero incomprensibili per i millennial.