Non si finisce mai di imparare
“ – Che città di merda – dice uno di noi, spezzando il silenzio. – Ma quanto è bella – ”. Si chiude così il libro Racconti romani di Jhumpa Lahiri (edito da Guanda). Si chiude con una sentenza. Che non spiega molto in verità. E che giudica soltanto in parte. Una frase che coglie lo stato d’animo degli abitanti di questa città condannata ad essere eterna nella sua precarietà.
Roma è protagonista, ovviamente. Come lo fu nell’altro volume che porta lo stesso titolo. Nel libro di Alberto Moravia (uscito nel 1954), però, Roma è una quinta quasi riconoscibile ma indifferente alla vita frenetica dei suoi personaggi. L’autore nomina piazze, strade, luoghi che restano però estranei alla vicende di chi soffre o gioisce. E’ una scenografia superba che però ha bisogno di non mescolarsi ai sentimenti dei suoi protagonisti per durare.
Jhumpa Lahiri, invece, ci restituisce una città scarnificata. Insultata e osservata al microscopio. Come la bambina di uno di questi racconti scopre un mondo di vermi e insetti brulicanti sotto una pietra, una realtà che vive e si agita nascosta al sole e all’osservatore, così Jhumpa Lahiri cerca di osservare il dato reale che si nasconde dietro la bellezza della città.
Un lavoro coraggioso e impegnativo, il suo. Che sfrutta il vantaggio che hanno gli “stranieri”, ovvero di poter guardare la città e il suo mondo con un occhio alieno dal pregiudizio degli indigeni. Trastevere, Monteverde, il Gianicolo, Cinecittà, Esquilino, sono tutti riconoscibili eppure nessuno li ha mai finora descritti in questo modo. Rarissimi i dettagli e i nomi dei luoghi. Caratterizzati da elementi architettonici e urbanistici comuni a tutte le città (scalinate, ponti, panchine, alberi, marciapiedi). Roma è una sfida, per i personaggi di questi racconti. Spesso vengono da lontano, come l’autrice. E devono fare i conti con una realtà che non li accetta. Vivono ai margini ma senza l’impotente disperazione dei personaggi di Marco Lodoli (Grande raccordo anulare, Crampi, I fannulloni). Alcuni sono immigrati per fame, altri (borghesi americani) per noia o crisi esistenziali. Tutti, però, vengono segnati da questa città bellissima ma invivibile. E ne subiscono il fascino e la maledizione. La loro autrice è più fortunata. Anche lei si è trasferita a Roma (nel 2011). Ha conseguito un dottorato in Studi rinascimentali quando già era una donna (madre e moglie) adulta. E soprattutto ha studiato con profitto la nostra lingua tanto da riuscire a sfruttarla per la sua produzione letteraria (con In altre parole nel 2015 vince il Viareggio Internazionale e nel 2019 pubblica Dove mi trovo, il suo primo romanzo direttamente in italiano).
Anche nei confronti della lingua, Lahiri ha uno sguardo disincantato e obiettivo. Usa, per esempio, il termine mantecare per descrivere l’abilità con cui la padrona di casa mescola gli invitati delle sue feste, affollate da persone provenienti da mondi e contesti differenti. Non cucino e di fronte a quel termine sono rimasto interdetto. Mi ha soccorso un’amica gentile, cuoca appassionata e lettrice sensibile e acuta. “E’ il processo – mi ha detto Michela – che rende pastoso e omogeneo un composto di diversi elementi”. E all’improvviso, illuminato e confortato, mi sembra che il travertino e il porfido di questa eterna città siano il corrispettivo del burro nei risotti mantecati. Elementi, cioè, capaci di mantecare i destini e i sentimenti degli indigeni e dei migranti che fanno di questa città il loro destino.
Poi penso ancora a una parola: migrabondo. La incontro quasi a fine lettura. Penso: che bella invenzione! Penso che sia germinata direttamente dalla penna di questa migrante consapevole e coltissima. E invece esisteva già. Era già patrimonio della nostra lingua. L’ha usata pure Eugenio Montale, come mi spiega il Signorelli: è raro che appaia/ nella bonaccia muta/ tra l’isole dell’aria migrabonde/ la Corsica dorsuta o la Capraia. Vado a riprendere Ossi di seppia per cercare questi versi (la poesia si intitola Casa sul mare) e intanto penso con gratitudine ai Racconti romani della Lahiri. Mi hanno regalato una Roma insolita e insegnato qualcosa che non sapevo sulla mia stessa lingua.